Ci riusciremo, questa
volta? Riusciremo a far accettare ai francesi il nostro romanzo
nazionale, I promessi sposi? Le premesse ci sono, in
quest'ultimo tentativo dell'editore Gallimard. C' è la nuova
traduzione di Yves Branca. C'è l'introduzione autorevole di Giovanni
Macchia. Ce la faremo? Può darsi di sì. Quanto meno ce lo
auguriamo: per amor di Patria. E di quel pezzo di patria letteraria
che è rappresentato dal romanzo manzoniano. Che in patria amiamo - o
quanto meno rispettiamo - sinceramente.
Non v'è chi non abbia
una sua familiarità, sia pure approssimativa, con le figure di Don
Rodrigo, di Don Abbondio, di Lucia Mondella e Renzo Tramaglino: i due
fidanzati difficoltati. All'estero molto meno. Inspiegabilmente meno.
Mentre Dante è studiato, mentre Ariosto è amato. Perché mai?
Qualche ragione c'è. I promessi sposi si presenta come un
romanzo, si definisce come un romanzo, ma un romanzo non è. È
qualcosa di diverso. È qualcosa di più; qualcosa di meglio, forse.
Ma non un romanzo. Un romanzo - e specie un romanzo ottocentesco - è
pur sempre un teatro delle passioni. Che possono essere blandite o
contrastate. Anche punite, alla fine. Come accade a Emma Bovary, come
accade ad Anna Karenina. Ma che lì stanno, al centro della scena.
I promessi sposi è
piuttosto un trattato sulla disciplina delle passioni. Nonché delle
azioni che esse ispirano. È la somma di tre o quattro romanzi
passionali, potenzialmente appassionanti tenuti a freno (e con che
mano ferma) dall'Autore. Tu lettore - dice egli fin dall'inizio -
vorresti adesso una bella storia di vendetta. Romantica e romanzesca
come quella del Michele Kohlhaas di Kleist. Non l'avrai. Renzo non si
farà giustizia da sé, a spese di Don Rodrigo. Ci penserà la
Provvidenza a mettere le cose a posto. Lei può. Lei sola è
autorizzata. Tu lettrice, ti aspetti una dispiegata storia d'amore,
fra Renzo e Lucia. Siamo o non siamo in un romanzo? Ma toglietelo
subito dalla testa. Nemmeno un bacio quei due si daranno. Non in mia
presenza. Tu lettore senti di aver diritto a un bel western, quando
arrivano i Lanzichenecchi, e i nostri buoni villici dovrebbero
correre ad abbracciare lo schioppo, per resistere. No. La cosa si
risolverà in altro, "provvidenziale" modo. Tu lettrice
vorresti trovarti immersa in una bella storia gotica quando appare
quella gotica figura - tenebrosa e sciagurata - che è la Monaca di
Monza. Ti aspetti castelli e segrete, fanciulle inseguite nei
sotterranei, cadaveri seppelliti furtivamente nelle cantine. Nemmeno
questo avrai. Tre parole soltanto: "La sventurata rispose".
Di tutto questo l'Autore ci avverte onestamente fin dall'inizio.
Quell'inizio lento, cauto, labirintico ("Quel ramo del lago di
Como...") che dice: qui non si affretta il passo. Qui si
riflette. Qui ci si pensa sopra, alle cose ("Pensarci sù"
era un suo motto). Il lettore francese - ci auguriamo - non si
lascerà scoraggiare. Capirà subito che non si trova di fronte né a
Stendhal né a Balzac. Ma comincerà a chiedersi, incuriosito, che
cos'è mai questo severo e sorridente, originalissimo antiromanzo. Al
quale non si smette più di pensare, una volta che lo si sia letto.
la Repubblica, 17 gennaio
1996
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