19.2.18

Che gran nevrastenico quel Rubè. Croce contro Borgese (Beniamino Placido)

Nel gennaio dell'anno 1947 si ebbe in Italia un singolare evento culturale. Che non scosse però tutto il Paese. Aveva altro per la testa. Nel gennaio 1947 l'Italia non aveva ancora la sua Costituzione. La stava preparando un'Assemblea Costituente, eletta il 2 giugno dell'anno prima. Quando si era deciso - contestualmente - di mandare a casa la Monarchia e di proclamare la Repubblica. Tutto era da ricostruire, tutto era precario. Non si sapeva da che parte rigirarsi per aiuto e consiglio. La copertina della “Domenica del Corriere” (numero 3 del 19 gennaio 1947) mostrava Alcide De Gasperi in piedi dinanzi al Congresso americano. Dov'era andato a chiedere aiuti per l'Italia. Li avrebbe ottenuti, anche in grazia della sua dignitosa, austriaca compostezza. Non ci sono statistiche, ma di certo la frase che più si sentiva borbottare in giro era: "Si stava meglio quando si stava peggio". Con chiaro riferimento al Fascismo, che pure veniva ufficialmente aborrito. In effetti, si stava piuttosto male. Ci si arrangiava. In cucina trionfava l'arte degli avanzi. Frigoriferi e scaldabagni erano di là da venire. Gli uomini si radevano un giorno sì e un giorno no. Per pigrizia. Ma anche per risparmiare sul sapone da barba e sulle lamette: costosissime e taglientissime. Le donne - specie le ragazze, specie nei piccoli centri - portavano una benda bianca arrotolata intorno al polpaccio, quando avevano il loro periodico, femminile malessere. Per indicare la loro indisponibilità al mondo? Per segnalare la loro preziosa fragilità? E chi può dirlo, chi lo sa. Nelle città le camionette - romantiche ed approssimative - stavano cedendo il passo, non senza qualche episodio di eroica resistenza, ai mezzi pubblici che tornavano timidamente ad affacciarsi sulle strade. Ci si consolava con il Varietà. In ogni spettacolo di varietà - piccolo, medio o grande - c'era una scena ricorrente, di rigore. Si presentavano sul proscenio i rappresentanti dei vari partiti - comunisti, repubblicani, socialisti, liberali, azionisti, democristiani - e promettevano di non discutere più, di non litigare più. Di procedere d'amore e d'accordo. Poi compariva il comico per dire: ve lo credevate, ehé Ma figuriamoci, questi continueranno a litigare ancora. Quindi gran finale: "W Trieste italiana" fra applausi scroscianti (Trieste, difatti, non era ancora tornata all' Italia).
In quell'Italia rustica ed arcaica, risentita e incerta; ancora sgomenta per la fine del Fascismo, ancora non abituata alla pratica della democrazia ("ma perché non si mettono d' accordo, invece di discutere?") chi volete che badasse alle riviste letterarie? Eppure c'erano. Eppure facevano discutere: s'intende, fra quei pochi o pochissimi che le compravano. Usciva per esempio una volta al mese “La Rassegna d' Italia”, diretta da Francesco Flora. Un professore di gran nome. Autore di una monumentale Storia della Letteratura Italiana: molto citata, molto temuta, e quindi pochissimo letta, nelle scuole di ogni ordine e grado. Fu nel numero di gennaio del 1947 che l'evento si materializzò. Sotto forma di uno scritto di Benedetto Croce. Il Senatore Croce. Il sereno, olimpico filosofo Benedetto Croce. Altro che sereno. Altro che olimpico, il senatore Croce. Quel suo scritto (Rancori letterari sotto vesti politiche) era una stroncatura feroce, una strapazzata impietosa. Ai danni di chi? Ai danni - lo anticipo - di una persona che non se lo meritava. Di uno studioso e scrittore di gran valore. Di una delle stelle del firmamento letterario italiano nella prima metà del Novecento. Di Giuseppe Antonio Borgese. Che si era fatto conoscere con la Storia della critica romantica in Italia (1905). Si era affermato con La vita e il libro (1910-1913). Si era fatto amare per un singolare romanzo, Rubé, pubblicato nel 1921. Poi, siccome il Fascismo proprio non gli piaceva, se n' era andato ad insegnare in America.
Che cosa gli rimproverava Benedetto Croce, che pure gli era stato amico, ne aveva promosso la carriera agli inizi? Tutto. Di tutto. Di essere intellettualmente dotato, ma poco applicato. Intelligente forse, ma poco diligente. Come dicono le professoresse di certi scolari disobbedienti. Di essere stato sì, all'estero; ma non già per studiare nelle biblioteche ("Egli non studia da oltre quarant'anni"). Di essere superficiale, narcisista, esibizionista. Fors'anche opportunista. E poi, santiddìo, aveva scritto per i giornali. "Poco paziente e poco attento lettore delle opere di cui giudicava e per le quali non cercava la verità ma la ' trovata' che gli servisse per l' articolo". Che vergogna. È vero, aveva scritto anche quel romanzo Rubé di cui era difficile - proprio difficile, persino a Benedetto Croce - negare l'importanza. Ma il Senatore Croce lo fulminava con un epigramma: "Per comporre il romanzo di un malato / dal più cupo egoismo travagliato / grande fatica Borgese non fé / copiò se stesso e si chiamò Rubé".
Si dà ora il caso che il romanzo Rubé di Borgese venga scoperto, tradotto e pubblicato dai francesi. Con convinzione, con entusiasmo. "Une grande oeuvre, unique". In questi termini ce ne informa René de Ceccatty in Le Monde di venerdì 9 giugno. Ecco una buona ragione per andare a cercare in biblioteca quella grottesca stroncatura crociana del dopoguerra. Ecco una buonissima ragione per leggere o rileggere quel romanzo incriminato (da Croce, ieri) ed oggi dai francesi esaltato. Non è difficile. Può farlo chiunque. Il Rubé di Borgese si trova in libreria, ristampato ancora una volta l'anno scorso nei Classici Moderni Oscar Mondadori. E non costa molto. 400 pagine per 13.000 lire. Alla rilettura, il Rubé di Borgese si conferma come uno dei cinque (o sette), romanzi veramente significativi del Novecento italiano. Tiene bene il suo posto, fra Il fu Mattia Pascal di Pirandello (1904) e Gli indifferenti di Moravia (1929: gli altri, cominciando ovviamente da La coscienza di Zeno di Italo Svevo del 1923, li aggiunga ciascuno come vuole, secondo il suo gusto).
Ci sono, nel Rubé di Borgese le case e le strade, gli uomini e le cose: soprattutto i sentimenti di quel tempo. Ci sono gli umori e i torvi malumori dei primi decenni del Novecento. C'è quella diffusa nevrastenia psicomotoria, quella insofferenza per tutto, quella insoddisfazione di tutto che aveva contagiato la borghesia intellettuale di allora. "Quella infelicissima borghesia intellettuale e provinciale": come si esprimeva Giuseppe Antonio Borgese, proprio lui, che a quel ceto sapeva benissimo di appartenere. Socialismo comunismo fascismo diventano obiettivi e strumenti intercambiabili per placare questa irrequietezza febbrile e generica. Andiamo a prenderci la Libia, adesso che la grande proletaria si è mossa. Ma no, organizziamo un bello sciopero generale. Ma sì, andiamo a combattere con gli arditi sul Piave. Ma no, occupiamo le fabbriche. Ma sì, facciamola questa Marcia su Roma. Di questi umori instabili e rabbiosi anche Filippo Rubé, giovane avvocato siciliano trasferitosi sul Continente, è ampiamente infetto. È indolente e frenetico. Oscilla fra abulia e impazienza. Di qui i suoi amori sbagliati, il matrimonio sbagliatissimo, le ambizioni strozzate, una carriera atrofizzata. È un inadatto alla vita. È "un uomo mancato". Benedetto Croce aveva ragione; questo è "il romanzo di un malato / dal più cupo egoismo travagliato". Ma dimenticava - con molta ingiustizia - don Benedetto che il Rubé di Borgese è un malato che sa di esserlo. Che di esserlo non si compiace per nulla. Non si piace per niente. Non si perdona di esser fatto com'è fatto: "Io lo so dove sarebbe la mia redenzione; diventare contadino e vangare la terra; operaio, magari alla Adsum; marinaio in un veliero che ci metta sei mesi a fare la traversata. Ma chi mi prende? Ma che mestiere so fare? Se sono un buono a nulla! Se sono un intellettuale!". La sua vicenda umana, romanzesca non sa di autoesaltazione. In nessun punto, in nessun momento. Piuttosto di espiazione.
Gran bel romanzo, il Rubé di Borgese. Se non è proprio un capolavoro, è solo perché l'autore è intelligente ahimè, troppo intelligente. Laddove lo scrittore - non lo diceva Flaubert? - dev'essere un po' sempliciotto, un po' "bete". Il romanziere Giuseppe Antonio Borgese è più intelligente dei personaggi che inventa. Più intelligente della vicenda che descrive. Più intelligente - e questo è proprio imperdonabile - persino del lettore. Costruisce il suo sistema di rimandi, di appuntamenti, di risonanze interne (ogni romanziere lo fa) ma poi lo esplicita. Lo esibisce. Come quando fa in modo che Rubé incontri prima un giudice che si chiama Sacerdote, poi un sacerdote vero e proprio. Invece di lasciare che sia il lettore a scoprire la corrispondenza, e a trovarla eventualmente significativa, la rivela: "Da Sacerdote sono caduto in sacerdote". Una volta scontati questi difetti, però, Rubé rimane un gran bel romanzo. Indispensabile per capire un bel pezzo di Storia d'Italia. E gran bel personaggio rimane il suo autore, il saggista-scrittore Giuseppe Antonio Borgese.
Perché allora tanta diffusa diffidenza, tanta ostilità accumulata contro di lui: nel 1947 e negli anni successivi? Sospetto che una ragione ci sia. Non è molto bella. Non è molto onorevole. In un saggio Il caso Borgese apparso nel numero aprile-giugno di Nuovi Argomenti il giovane ardimentoso critico Massimo Onofri la tira fuori. Una ragione che non vale certo per Croce. Vale per gli altri, numerosissimi nemici, incoraggiati purtroppo da Croce, che Borgese ha avuto. Eccola: "L'opposizione di Borgese al Fascismo che lo portò, con pochissimi altri, ad abbandonare la cattedra universitaria pur di non giurare fedeltà al regime, doveva necessariamente procurargli, oltre che l'ovvio odio dei fascisti, il risentimento di quei colleghi che invece giurarono e che, finita la guerra, furono costretti a riconoscere in lui un esempio di moralità rimasta sempre integra".
Dal 1947 ci separano dei decenni, forse dei secoli. Sono cambiate tante cose, forse tutte. Abbiamo gli scaldabagni, i frigoriferi, le automobili, il fax e la televisione. Gli uomini si fanno la barba ogni giorno con l'Internet (così dicono). Le donne non hanno più di quei problemi che usavano segnalare avvolgendo una fascia attorno al polpaccio. Anzi, per via delle autostrade informatiche e in grazia della realtà virtuale, la loro stessa natura, la loro fisiologia è cambiata (così si dice). Ma certe forme - non virtuose - di ostilità malevola nei confronti di chi è più bravo di noi, di chi si è comportato meglio di noi, sono ancora lì. Sono ancora qui. Per poterle riconoscere nella realtà "culturale" di ieri, il giovane critico Massimo Onofri ha dovuto incontrarle anche nella realtà "culturale" di oggi. È stato bravo a scoprirlo. È stato bravo a dirlo.


“la Repubblica”, 11 luglio 1995  

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