Severino Cesari e Vincenzo Consolo |
Un lume acceso
nella notte di pece e di piume.
Dal «Sorriso
dell’ignoto marinaio» al messia nero
Del romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa, che accosta e forse supera
le sue narrazioni maggiori: Il sorriso dell’ignoto marinaio,
1976, e Retablo, 1987, stupisce non la chiacchierata
complessità (tematica, stilistica) quanto la assoluta semplicità.
Basta leggere, e purché non si confonda il linguaggio chiamato
barocco, forma della precisione, con il gusto novecentesco per
l’ornamento e il superfluo. Tutto qui è invece di spartana
necessità. Lo scontro letterario considerato attuale è tra Verga e
D’Annunzio. La scena è storica, con meticolosi dettagli che
balenano al punto giusto, fili d’oro nell’ordito: Cefalù negli
anni ’19, ’20 e ’21 del secolo, l’avvento del fascismo mentre
il mago e satanista Aleister Crowley (la «Bestia») sbarca in
Sicilia per fondare il suo tempio erotico-eretico, e gli anarchici
invece, per definizione, se ne vanno (in Tunisia, in questo caso),
sullo sfondo di più gigantesche migrazioni, con la grande industria
nascente e i mestieri però ancora saldi e sapienti.
La tesi, o l’intuizione:
quegli anni di passaggio e di generale follia sono non identici, ma
analoghi ai nostri, di grande mutazione. Il romanzo è la
trasformazione di questo teorema in un mondo coerente e minuzioso,
evocato alla vita da un linguaggio che si fa foglia, apparizione,
movimento lieve del vento, imprecazione, polifonia, arcaismo,
arabismo, citazione, pertinenza di ogni lingua parola e nome, con
amore ascoltati, con attenzione, a restituire la realtà, subitanea,
impressionante, del colpo di zoccolo di un cavallo sulla pietra nel
silenzio meridiano che non abbiamo mai conosciuto, la materna
presenza della pomelia, o plumelia, «il fior bianco e avorio» - che
carissimo dev’essere agli scrittori siciliani se anche di recente
l’ha eletto protettore del suo Cambio di stagione Gianni
Riotta, citando versi di Lucio Piccolo.
L’invenzione, geniale,
che permette al teorema di diventare vita è aver fatto del
protagonista, Petro Marano, uno sradicato come Mastro-don Gesualdo
(il quale è nei fatti, appunto, un senza classe che porta anche nel
nome - è ancora considerato mastro, non ancora riconosciuto soltanto
don) il proprio bloccato destino. Petro è figlio di contadino
diventato piccolo possidente, non accettato però dai borghesi di
Cefalù, e di questo passaggio eroico, incompiuto e terribile porta
il peso di dolore, malinconia, lupo manaro, male catubbo. Fin
qui, sarebbe Verga. Petro però (anch’egli segnato, nel cognome:
Marano, marrano) trasforma il passaggio doloroso e la stessa offesa
(il suo avversario, don Nenè, gli viola la casa, squarcia le giare
dell’olio, in mescolanza di proto-squadrismo e rivalità amorosa)
in libertà: perché sceglie di non aderire al suo nuovo status, non
rivendicarlo, non difenderlo, fuggire. Fuggirà anche dalla sirena
dell’azione politica, dalla follia dell’anarchico Schicchi,
speculare alla Bestia: pensiero e dinamite lo tentano, ma per poco.
Ed è Petro l’unica figura che davvero si muove, attraverso le
pagine del libro, e gli garantisce unità e fluidità, come nella
bellissima entrata in Palermo da Palazzo Steri, multipla di voci, di
folle, di scritte e slogan, le proteste e la nascente industria, il
ricordo della sorella e le prostitute...
Come sempre in Consolo
non c’è tuttavia, di tutto questo, narrazione classica. Il romanzo
si compone per scivolamento e intarsio di quadri e scene l’uno
sull’altro, con chiuse, suggelli che velocemente sciolgono l’azione
o meglio la condensano o preparano, e incipit altissimi, dove
l’impeto naturale di scrittura diventa sapienza, artigianato
ritmico e poetico da costruttore di giare. Ma vanno letti anche con
qualche beneficio di ironia: come se ogni volta comparisse in scena
un angiolone con la tromba, ad annunciare: qui comincia il capitolo,
pardon, il quadro, dove accadrà questo e questo, ma attento lettore:
l’importante non è ciò che accade, è il mondo che stai
costruendo...
Capitoli anche diseguali
tra loro nel tentativo programmatico di rendere ogni volta un tema,
un tono, un umore, un registro dominante: che sempre di gran lunga
prevale sui «personaggi», e su ogni volgare «psicologia», come se
il tutto dovesse poi fondersi in una compatta, diamantina,
infinitamente scintillante allegoria, sfolgorante tappeto di nomi nel
quale rivelarsi una divinità assente... O come se il libro intero
fosse alla fine non libro, ma cosa solida: se il Sorriso era
chiocciola, e il Retablo era retablo, che cosa è Nottetempo,
casa per casa?
Illuminismo
versus strani illuminati, ancora la luce, ma distorta, sole nero,
estasi per opposte allucinazioni: la Bestia Crowley e la mistica
rosminiana Angelina Lanza si sfiorano nel Duomo di Cefalù, nella
luce che piove dal rosone contemplano la propria follia, speculare a
quella del proprio complementare nemico... E l’unica figura
portatrice di una visione d’insieme è diventato il perfetto Male,
il finto Illuminato... Alla coppia Mandralisca-Interdonato
(quest’ultimo, il rivoltoso che tenta alla politica l’illuminato
malacologo) nel Sorriso, coppia che già in Retablo si era
stracangiata (per usare un tipico verbo consoliano) in quella
più stravolta Clerici-Isìdoro, una sorta di Prospero-Calibano, con
l’ex frate isolano Isidoro come servo, ora si sostituisce una
disseminazione di rapporti: nessuna forma di «coscienza generale»,
quale quella garantita da quei personaggi illuministi, voce e forma
di superiore anche se contaminata e commossa serenità, è più
possibile. C’è la coppia Petro-Cicco Paolo (l’unica «positiva»,
ma nella reciproca debolezza e infermità); oppure Petro-Schicchi,
Petro-Janu, e a livello di opposizioni Petro-barone Cìcio o persino
Petro-Crowley (uno che arriva da fuori per corrompere, l’altro che
da dentro evade scoprendo la corruzione e la frattura, la scissione
generale come decadimento dallo stato naturale: e dunque, la cultura,
la salvezza, anch’essa come scissione).
È che l’altra coppia,
quella del Sorriso, libro aurorale, funzionava riferita a un
mondo di cui l’illuminista di turno poteva rimanere spettatore,
anche se appassionato e dolente, come il barone Mandralisca di fronte
ai fatti di Alcàra Li Fusi e il cavalier Clerici di fronte ai
terremotati: ora, ed è questa la novità dell’ultimo romanzo di
Consolo, siamo tutti dentro, tutti partecipi di follia.
Da qui la cupezza,
l’incastonatura ferrea e urlante, perfino metallica, con suoni di
inchiavardamento e prigionia, la melanconia feroce del libro come
nell’angelo celebre del pittore, sparsi intorno gli strumenti degli
umani saperi. Da qui si passa, non c’è più un esterno cui è
affidata la comprensione generale, del testo o della vita, la
comprensione generale si ha solo attraverso il dolore, il patimento
di chi è scisso, solo stando nel magma, nella melma e tirndosene su.
Altra conoscenza non c’è,
altro sapere, se non quello corroso e pronto a ogni ribalderia alla
moda del barone Cicio, che tra polverosa biblioteca (una biblioteca
alla Azzeccagarbugli, un elenco alla Cervantes; grande e ironica
l’epica degli elenchi in Consolo) e angolo suo particolare
dannunziano, fa già le prove estetiche e piccine del fascismo: «e
collezionava stampe, libri, arnesi arditamente osés che dentro nel
suo studio facevano l’enfer». Ed era già dunque predisposto, don
Nenè, nella gran macchina combinatoria di Consolo, all’incontro
con il vero infernale Crowley, perché c’è sempre bisogno di un
laido, sensitivo servo che accolga Dracula; e predisposto poi, nonché
alle arditezze della targa Florio, benemerita peraltro e descritta
con gran senso di corale stupore e schiamazzo e allegria e incrocio
di modernità e scaltrezza contadina (compaiono le prime gomme
Pirelli, trasformate in suole da scarpe dopo l’incidente d’auto
del barone) al picchia picchia generico e rozzo del santo manganello,
sia pure per interposta servitù picchiatrice, non sia mai.
Allora, gli
illuminati neri son gli unici illuministi rimasti nel tempo
di pece e piume, in cui tutti siamo complici, e diverse follie ci
attraversano: follia di vittima predisposta nell’innocente, follia
colpevole e presto assassina in altri. Ma qui stiamo, e visto che la
fuga verso l’araba Tunisia, possibile forse per Petro allora, oggi
vale in tutta evidenza solo come scena, un po’ come per Ferreri la
fuga finale nell’ultima scena di Dillinger è morto, allora,
bisognerà rassegnarsi all’unica possibile e vera evasione:
rendersi conto, e render ragione, dare nomi alle nuove cose che
accadono, scrivere infine (o equivalenti: si intende, l’arte in
generale) o provare a farlo. La letteratura, e l’arte come medicina
non della ferita, ma nella ferita. Consolo non lo dice, ma va da sé:
se Aleister Crowley è uno stregone di magia nera, tutto Nottetempo,
casa per casa è invece nient’altro che questo: un lungo,
complicato, fascinoso esorcismo, è una operazione legittima e alla
luce del sole di magia bianca, completamente riuscita, che si accende
e si svolge come chiocciola o arma a lento sviluppo chimico nella
mente del lettore attento, per liberarci dal male. Non litania, ma
preghiera. Lume o fiaccola o fuoco o lampada che mano di donna
accende alla finestra, nel buio: come nel primo capitolo, mentre
corre il licantropo nella campagna e come già prima nel Mastro-don
Gesualdo, ai primi rumori dell’incendio di casa Trao le donne a
sporgersi, col lume...
Spia linguistica di
questa opposizione tra tenebre della depressione-follia-melanconia e
lume incerto «di speranza, ma non di ragione», come lo stesso
Consolo mi diceva in una conversazione recente, è l’ossessione dei
derivati da katò, greco per giù, sotto: da male catubbo, del
padre di Petro, licantropo nelle notti di luna, la scena su cui apre
il romanzo, dato storico del dolore contadino senza sfogo, che
diventa lupo mannaro, ed è poi malinconia: fino a catoio, e simili.
Laggiù, in un catoio, finiva, o forse cominciava, il
carcere-chiocciola del Sorriso, letterato dai graffiti di
prigionieri. Ma come tutto è ambivalente in Consolo, maestro
dell’inesistenza della verità se non nel retablo, nella
chiocciola, nell’esorcismo, nel libro nel suo insieme: mai in una
sua parte o personaggio, è proprio giù nel profondo della terra, è
nel buio dell’ipogeo che si trovano tesori. Sono le bianche forme
di marmo classico in Retablo, e sono qui, nella memoria di Petro con
l’amico pastore, Janu ancora innocente, non corrotto ancora da
Crowley, le misteriose figure angeliche che si staccano dalle pareti
di un sotterraneo, ritrovato luogo sacro, lievi allegorie del tempo
che c’era prima di questo storico, del tempo in cui le creature
potevano incontrarsi, nella bellezza e nell’innocenza dell’amore
e del linguaggio, prima delle partizioni in caste, doveri e mestieri,
rituali e divieti, eden.
Non è la precisa
certezza di avere questo nel cuore, ricordo o speranza, a guidare il
«senza classe» Petro fuori da ogni pastoia o vincolo di nuova
appartenenza, a trasformare in risorsa la sua mobilità obbligata, e
in leggerezza di nomade l’eredità del dolore del padre,
schiacciato dalla fatica di emergere?
«Pensò al suo quaderno.
Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza,
avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione,
nome a tutto quel dolore.»
Buono per oggi, per
nomadi e mutanti e transeunti nell’età della semi-definitiva
scomparsa di ogni eredità e appartenenza di classe, in una confusa
massa, o confuso sogno, in cui molte cose ci attendono, e
confusamente gemono per nascere, sirene creature o idiote follie, per
forse raggiungerci nottetempo, casa per casa.
“latalpalibri il
manifesto”, venerdì 17 aprile 1992
Nessun commento:
Posta un commento