26.2.18

Kafka, questo ebreo di Praga (Franco Fortini)


Kafka è morto nel 1924. Potrebb’esser morto l’anno passato, a Auschwitz, a Belsen, questo ebreo di Praga. Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto: delle città che crollano sotto i «colpi successivi di un pugno gigante», degli uomini degradati fino ad esser gettati via nelle spazzature, delle macchine per le torture, delle condanne senz’appello, eseguite di nottetempo.
Ma questa sua visione, non aveva avuto bisogno di nessuna riprova esterna. Kafka ha descritto per sempre, viaggiando entro le proprie solitudini, una atroce provincia umana. Per questo la sua opera domina questi anni. Per questo vi sono dei critici che vedono in lui il più grande avvenimento spirituale dell’ultimo trentennio. Una definizione (superficiale) sarebbe facile; è facile avvicinarlo all’irrazionalismo europeo, che muove da Bergson fino alle ultime filosofie dell’angoscia e dell’esistenza.
Ma c’è in Kafka sempre qualche cosa di più, di irriducibile, che consiste nella identità che egli ha saputo stabilire fra il proprio destino e quello delle sue creature, fra il fatto e il simbolo. Così il suo mondo, che apparentemente sembra filare nella logica delle sue assurde premesse, è in realtà un vertiginoso giuoco di specchi. In esso risuonano le sue parole-chiave: la Paura, l’Angoscia, il Rischio, l’Attesa, la Frustrazione, la Colpa; in esso si instaurano i suoi terribili miti: la costruzione del rifugio (nella novella omonima) e quella delle muraglie babiloniche; la degradazione corporea, la Legge, il Tribunale, la Condanna.
Conoscevamo Il processo, questo terribile libro di una condanna senz’appello, La colonia penale, la Tana, la Metamorfosi e i racconti della Muraglia cinese e, prima ancora del Castello, (che è forse la sua opera più potente), ci giunge questo luminoso mistero che è America, tradotto da Alberto Spaini, uscito da Einaudi. È apparentemente, il racconto non finito delle avventure di un adolescente europeo in America; svolgimento fatato di eventi intorno ad un personaggio che rimane quasi identico a se stesso, come in tanti classici della narrazione dal Chisciotte a Eulenspiegel, da Candido al Meister. Carlo Rossmann, a differenza di tanti altri personaggi di Kafka, ha un nome ed un cognome; si direbbe quasi che l’autore abbia voluto confortarsi a credere nella realtà di quello che racconta. In questo come in altri libri di Kafka, la condizione iniziale, il tema fondamentale, che qui è la caduta di Carlo Rossmann in America, la sua nascita al mondo, si riproduce all’interno di ogni capitolo ed episodio, come sfere cinesi: così, sfuggenti, imprecise, eppure terribilmente evidenti, le persone che avvicinano Carlo sono ora dèi ora dèmoni di strani microcosmi (la nave, la villa, l’albergo, la casa di Brunelda). In ognuno di questi imperano una legge e un sentimento di colpevolezza e di fatalità, assieme a paradossali possibilità di evasione e di salvezza; e quei personaggi, che in generale paiono agire per mandato di altri, sono in verità dei funzionari di una mostruosa trappola giudiziaria, come nel romanzo Il processo. Ma il prodigioso di questo narratore è che, costruendo su due o tre temi fondamentali e riproducendoli, allargandoli, rovesciandoli come in una architettura musicale, finisce col dare un senso rigorosissimo, fisico, di verità, secondo una tradizione tutta germanica e gotica. Si guardi ad esempio il terzo capitolo: Carlo Rossmann è stato invitato da un amico di suo zio a passare la notte in una villa presso Nuova York ed ha ottenuto il permesso non senza qualche difficoltà. Carlo vorrebbe tornarsene a casa la sera stessa. Ma in quella casa c’è un altro amico dello zio, il signor Green, il quale lo fa aspettare fino alla mezzanotte, per consegnarli una lettera nella quale lo zio (simbolicamente, la divinità) gli dichiara di non volergli più dare ospitalità. Sui motivi fondamentali dell’ansia immotivata, della condanna gratuita, della paura e della colpevolezza (paura della casa non finita, colpa di essere in ritardo ecc.) se ne innestano innumerevoli altri, dinnanzi ai quali il lettore non ha soltanto, come scrive Spaini, l’impressione che Kafka batta sui giunti e i piani della sua costruzione, per dimostrarcene la solidità, facendo cosi pensare continuamente ai più terribili trabocchetti; ma proprio lo stupore di chi comprende come ogni cosa, persona o avvenimento abbiano più di un significato, anzi tutta una serie di significati. Non basta, assolutamente, per Kafka, riferirsi alla logica dei sogni; né chiedergli quello che è fuori dei suoi interessi. Spirito religioso nel senso sacrale della parola, Kafka non chiede, e non ripete, ossessionante, che poche, vitali parole: la Salvezza, la Condanna, la Colpa, la Grazia. E non c’è favola sua, nemmeno questa, che pare più concedere al nostro mondo, la quale non scavi quelle parole e quelle domande. La tana dell’animale, il cortile della casa paterna nella pagina tremenda che traduciamo, la città di Babele, il villaggio del Castello, la Praga del Processo e questa America non sono che immagini dello spazio e del tempo umano; le vicende e le azioni non ripetono che il dramma eterno del quale Kafka, nel suo diario, ci ha lasciato schemi sfolgoranti. Per esprimere tutto questo egli ha realizzato il miracolo di lasciar crescere il sentimento solo fino al punto nel quale il ragionamento non si distingue più dall’immagine; in quel punto ha applicato, come un sismografo, la propria penna, risolvendosi tutto, – dono rarissimo fra i diaristi, – in una disperata autobiografia; cessando di scrivere là dove cessava di vivere o dove sole sarebbero state, staccate l’una dall’altra, la ragione e la fantasia. È chiaro che per domare e costringere alla scrittura questa enorme forza d’immaginazione Kafka dovesse adottare un falsetto, nella sua scrittura; e il suo falsetto è la prosa cronistica o quella del romanziere di appendice. Su quel fondo di convenzioni verbali e psicologiche cresce la foresta delle sue invenzioni; e non diversamente hanno operato alcuni pittori surrealisti. Ma, sotto la tensione del sentimento, quel falsetto si rompe, finisce col non essere che un ricordo, ogni frase ha il suo ritmo interno, ed ogni pagina. Kafka sapeva che la retorica minaccia solo i deboli; così quel pericolo non esiste per lui. C’è una calma ed una giustezza nelle sue pagine che, a noi italiani, possono forse ricordare il leopardiano Elogio degli uccelli, o il Cantico del gallo silvestre. E ci piace ricordare queste, da una lettera di Kafka perché proprio come in Leopardi vibra in esse una altissima forza morale: Io combatto. Nessuno lo sa. Qualcuno lo sospetta, è inevitabile, ma nessuno lo sa. Compio i miei doveri quotidiani; mi si può rimproverare un po’ di distrazione ma non molto. Ben inteso, ogni uomo combatte, ma io combatto più di ogni altro. La maggior parte combatte come dormendo, come quando si agita la mano in sogno per scacciare un apparizione. Ma io sono agli avamposti e combatto di mia volontà fino a sfinire completamente le mie forze… Perché sono uscito per combattere agli avamposti?… Perché sono ora inscritto sulla prima lista del nemico? Non lo so. Un’altra forma di vita non mi sembrava valere la pena di vivere. Uomini di questa specie, la storia della guerra li chiama nature di soldati. Eppure non è così, io non spero la vittoria e non amo il combattimento per se stesso. Io lo amo solo perché è l’unica cosa che ho da compiere. E in questa sua qualità il combattimento mi procura molta più gioia di quanta non sia realmente capace di assaporare, più di quanta io possa esalare e forse non è il combattimento, ma questa gioia che mi farà perire.
Kafka non è né romanziere né poeta che possa divenire popolare. Quel che passa in proverbio di lui è lo schema letterario o la barzelletta. Kafka è un maestro di verità e di vita, di quelli che non consolano, ma incitano come spine nella carne. Uomini di questa specie la storia della guerra li chiama nature di soldati: la storia della guerra cioè la storia dell’uomo, che è milizia, secondo la parola cristiana. Kafka combatte tuttora per noi, nel buio, contro i draghi, come fanno i santi. E pare di un antico mistico umbro o fiammingo questo passo delle sue meditazioni: Non è necessario che tu esca di casa. Resta seduto al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltar neppure, attendi soltanto. Non attendere neppure, resta in silenzio e solitudine. Il mondo sta per offrirsi a te per essere smascherato, non potrà rifiutarsi. Estasiato, si torcerà intorno a te in larghi cerchi.

«La Lettura», II, 3, 17 gennaio 1946 in https://francofortini.wordpress.com/ 

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