Luciano Bianciardi (a sinistra) con un amico |
Sono andato a cercare un
libro vecchio di qualche decennio. Per leggerlo oggi. Proprio oggi,
domenica, che torna il campionato di calcio. Dopo lo sciopero
(inaspettato, immeritato) di domenica scorsa. Si intitola Il
lavoro culturale. Lo scrisse Luciano Bianciardi. Un bellissimo
libro. Fece sensazione. Provocò una piacevole sorpresa quando
apparve, nell' anno 1957. Lo stesso anno in cui appariva Il barone
rampante di Italo Calvino.
Il lavoro culturale?
Ecco, si penserà. Prepariamoci ad ascoltare un discorsetto (non è
stato già fatto, da qualche parte?) su quanto sarebbe bello e
salutare - vuoi per il corpo, vuoi per lo spirito - non pensare al
calcio la domenica, ma dedicarsi piuttosto alle buone letture, alle
passeggiate fuori porta (la primavera è arrivata), alle visite dei
Musei. È vero, forse. E forse no.
In questo libro piccolo
piccolo, un centinaio di pagine, un giovane insegnante maremmano
descrive che cos'era, che cosa è stata la provincia italiana nel
dopoguerra. E più precisamente, Grosseto. Con i vecchi studiosi
locali, pieni di polvere, che stavano lì a rivangarla, un giorno
dopo l'altro, sulle glorie degli Etruschi. Buoni gli Etruschi. Bravi
gli Etruschi. Misteriosi gli Etruschi. Ancora non si è capito di
dove venissero. Ancora non si è riusciti a decifrare la loro lingua
(sai che ti dico? erano più forti dei Romani, i nostri Etruschi). Da
una parte. Dall'altra quei giovanotti di provincia sempre sfaccendati
"già pingui a venticinque anni, a forza di non far niente e di
sonnecchiare sulle poltrone di vimini, esposte sul marciapiede
davanti al caffè". Nel mezzo, loro: i giovanotti vivaci ed
irrequieti come Bianciardi Luciano che interessato al "sociale"
aveva già scritto un'inchiesta sui Minatori della Maremma,
insieme a Carlo Cassola. Che si inventavano cineclub e inauguravano
circoli del jazz. Che leggevano di tutto. Più spesso, cose
americane. Pensavano molto all' America, simbolo di vitalità e di
dispiegata energia (altro che gli Etruschi, già tutti morti, e da
tempo). La loro America, che aveva come capitale non già Washington,
e nemmeno New York, bensì Kansas City. E come Kansas City,
espandendosi e rinnovandosi, doveva diventare la loro Grosseto
sonnolenta. Forse non ci abbiamo mai pensato, ma in quegli stessi
anni Alberto Sordi si presentava al cinema come "l'amerecano der
Kansas City". Forse abbiamo mancato di notarlo, ma in quegli
stessi, stessissimi anni, in uno dei suo ultimi romanzi, L'inganno,
Thomas Mann menzionava anche lui, irridendola, questa ingenua
mitologia: "Oh, Santa Kansas City, ah ah ah!". Ne
approfittino i professori. Diano una tesi di laurea sul posto della
(santa) città di Kansas City nell'immaginario europeo del
dopoguerra.
È vero. Ci deve essere
stata una grande tensione politico-culturale a Grosseto, e in chissà
in quante altre cittadine della provincia italiana, allora. Ma era,
doveva essere necessariamente in contraddizione con la pratica del
calcio, con la passione per il gioco del pallone? Pare di no, ed è
questa la sorpresa. Di questo piccolo, prezioso libro di Luciano
Bianciardi, tirato giù impolverato dagli scaffali, mi pareva di
ricordare a memoria una pagina. Mi pareva, perché si sa che la
nostra memoria gioca a rimpiattino. Si diverte a spostare quando una
virgola, quando un punto; a scambiare un personaggio con l'altro.
Questa volta no. Quella pagina me la ricordavo perfettamente. Virgole
e punti compresi. È la pagina in cui Luciano Bianciardi, fervido
giovane intellettuale del dopoguerra, racconta la cosa di cui era più
orgoglioso. Di essere (di essere stato) un bravissimo giocatore di
calcio. Forse il miglior centromediano della Maremma. Sempre "padrone
della mia metà campo". Capace di "certi traversoni alle
ali, profondi, che tagliavano fuori mediani e terzini, per non
parlare poi dei palloni alti, sui quali ero sempre il primo ad
arrivare".
Passò qualche anno - gli
anni passano, si sa - e si venne a sapere, forse lo rivelò lui
stesso, che non era vero. Non era così bravo Luciano Bianciardi col
pallone fra i piedi. Bravo era suo fratello. Lui però poteva pur
sempre sognarle (ed attribuirsele) le imprese del gioco del pallone.
Non è un sogno futile, o culturalmente scadente. Si tratta di
padroneggiare il proprio corpo. Con il proprio corpo di addomesticare
quella palla, così capricciosa e sfuggente. Di dominare lo spazio in
cui la si gioca. E di farlo rispettando precise, cavalleresche,
inflessibili regole. Una donna, Rossana Rossanda, che di calcio non
si intende, ha scritto in una delle sue recentissime (e
interessantissime) Note a margine, pubblicate da Bollati
Boringhieri: "Non me ne importa niente se vince o no Baggio: è
che il calcio mi pare una forma assai civilizzata del competere,
certo più di quella che vige nella vita pubblica italiana".
Diamo il bentornato al calcio, nelle nostre giornate domenicali.
“la Repubblica”, 24
marzo 1996
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