Negli anni ‘60 il mondo
è percorso da due cicli di movimento sociale. La contestazione
giovanile e studentesca che ha connotati fortemente libertari di
critica di una società burocratizzata e gerarchica e un fermento
industriale che, in forme complesse a variegate (lotte rivendicative
radicali, alto turn-over, assenteismo, sabotaggio…), minaccia
seriamente la governabilità della rigida costrizione fordista del
lavoro. Da punti di attacco diversi i due movimenti mettevano in
discussione quella che Sennet chiama il «capitalismo sociale
militarizzato» forgiato dentro le due guerre mondiali e che trova la
sua manifestazione trionfante nel «trentennio glorioso» (1945-1975)
strutturato dagli schemi mentali, dall’ordine organizzativo e dalle
discriminanti politiche dettati dalla esperienza di guerra, calda o
fredda. Questi due cicli dell’azione sociale che percorrono tutto
l’Occidente capitalistico hanno differenti sviluppi nei diversi
Paesi: hanno svolgimenti separati come in Germania e negli Stati
Uniti, incontri istantanei ed esplosivi come nel Maggio francese,
incastri e contaminazioni profonde e durature come nel caso italiano.
Occorre però rilevare
che tutti questi movimenti avevano in comune una radicalità
democratica e una straordinaria esigenza libertaria. Non sono
contenibili all’interno di mere risposte di risarcimento salariale:
si tratta di mettere in gioco i rapporti di potere. Non a caso il
famoso rapporto
della Trilaterale del
1973 parla della patologia di quei tempi come di un «eccesso di
democrazia» che genera una crisi di governabilità delle imprese e
dello stato. Il rapporto indica alla politica la via della
emancipazione dei partiti dalla società civile per sottrarre i
governi dall’inflazione della domanda sociale. Proprio negli anni
70 si avvia, soprattutto in Europa, quel processo di crisi e
superamento dei partiti di massa che condurrà alla transizione dallo
stato dei partiti verso gli attuali sistemi di partiti di stato.
Contemporaneamente nel decennio 70 si avvia un processo di
ristrutturazione delle imprese alla ricerca di una loro flessibile
risposta all’«ambiente turbolento» (insubordinazione del lavoro,
stagnazione dei mercati, personalizzazione dei consumi) cercando di
andare oltre le rigidità del fordismo.
All’interno di questo
quadro internazionale si colloca la particolarità del «maggio
strisciante» italiano che trova la sua nota specifica nella
radicalità e nella qualità del 69 operaio che interagendo con il
movimento studentesco e con la sua spinta anti-autoritaria esplicita
pienamente i contenuti libertari che percorrono l’insubordinazione
operaia alla condizione di lavoro coatto di tipo fordista che
serpeggia in tutto l’Occidente industrializzato. La centralità
operaia nel biennio 68-69 segna le tre caratteristiche
dell’esperienza italiana: essa favorisce la espansione della
conflittualità verso molteplici aree sociali (i quartieri, le
campagne, i tecnici, i medici, i magistrati, gli insegnanti…); essa
sta alla base della processualità lunga dei conflitti che è propria
del cosiddetto «maggio strisciante italiano»; essa incide in modo
secco e profondo sui nervi sensibili dei rapporti di produzione,
mette in discussione i «poteri forti». Senza l’«autunno caldo»
dei metalmeccanici non ci sarebbe stata Piazza Fontana e la strategia
della tensione. Ma alla base di questa collocazione centrale della
classe operaia nella cosiddetta stagione dei movimenti c’è la
specificità tutta italiana di una lotta di fabbrica che cerca di
esprimere in nuovi istituti di democrazia radicale l’istanza
libertaria che percorre l’insieme della mobilitazione sociale:
nascono i delegati operai e i consigli di fabbrica. Sulla genesi e
sulla vicenda del movimento dei consigli vi è stato un impegno di
analisi sociologica. Direi che non esiste una seria indagine e
ricostruzione storiografica. Del resto la storiografia non ha ancora
colto il biennio 68-69 nella sua unità e nel suo valore
periodizzante della storia nazionale come lo furono i bienni
1919-1920 e 1943-1945. Il ‘68, l’anno degli studenti, viene
collocato nell’ambito di una rivolta generazionale dei giovani, il
‘69, anno degli operai, come momento innovativo dentro la storia
specialistica delle relazioni industriali.
Il sociologo Alessandro
Pizzorno interpreta la nascita dei consigli come la convergenza di
due spinte: da una parte l’esigenza della nuova figura dell’operaio
comune fordista di cercare di darsi una identità e di ottenere un
riconoscimento e dall’altra parte la necessità del sindacato di
realizzare, attraverso l’uso strumentale dei delegati e dei
consigli, il controllo delle dinamiche rivendicative e la sua
presenza in fabbrica. In netta polemica con Pizzorno il sociologo del
lavoro Guido Romagnoli parla di un movimento spontaneo dei delegati
che non è prodotto dalla risposta sindacale ad un movimento di lotta
che gli sfugge. Il movimento dei delegati, secondo Romagnoli, si
inserisce nella più ampia politicizzazione del sociale e
nell’emergenza di forme associative della solidarietà in
competizione con le strutture gerarchiche di dominio che si
manifestano nelle scuole come nei quartieri, all’interno delle
professioni così come nella contestazione delle gerarchie della
chiesa. La sociologa Ida Regalia, che con più sistematicità ha
indagato l’esperienza dei delegati e dei consigli, sostiene che. il
delegato nella forma radicalmente nuova in cui appare alle officine
Ausiliarie della Fiat come emissario del gruppo operaio omogeneo,
eletto su scheda bianca e revocabile, nasce fuori dalla cultura e
dalla esperienza preesistente del sindacato. I cosiddetti consigli di
fabbrica dell’Italsider del 1965-66 sono sezioni sindacali della
Fiom su base elettorale allargata, i «delegati di linea e di
cottimo» in Fiat del giugno ‘69 sono fiduciari esperti della
Commissione interna, gli stessi «delegati di lotta» cui viene
trasferita gran parte della gestione del conflitto nell’autunno
caldo, non si collocano in una concezione nuova della rappresentanza
operaia. La scelta operativa del sindacato metalmeccanico di
decentrare la gestione delle lotte dell’autunno caldo produce
«conseguenze impreviste» scaturite dall’intreccio tra spontaneità
e nuova cultura politica: i delegati di lotta si allargano, si
consolidano sia come strumenti di conflitto e di contrattazione, sia
come portavoce diretti degli operai del reparto e poi della fabbrica
in autonomia dalle istanze sindacali esterne. Si realizza nei punti
alti dell’esperienza dei consigli un tipo di democrazia nuova che
non è democrazia diretta assembleare e nemmeno democrazia
rappresentativa tradizionale ma una sorta di democrazia di mandato
«che riduce al minimo la distanza tra partecipazione diretta e
delega, tra movimento e organizzazione». Ida Regalia sottolinea
come un’invenzione così
complessa non poteva essere frutto soltanto della spontaneità ma
anche di culture politiche che essa individua soprattutto nella
sinistra socialista libertaria che si richiamava a Panzieri e a Foa e
al personalismo partecipativo e classista che si esprimeva nel
dissenso cattolico. Le resistenze più forti venivano dalla cultura
comunista.(Eccetto Sergio Garavini e, con prudenza, Trentin).
Sul versante del lavoro
l’interazione con le lotte studentesche soprattutto nel 1968 dilata
negli operai le opportunità del conflitto, suggerisce nuovi
repertori delle forme di lotta e soprattutto inserisce all’interno
del codice binario di sfruttatore e sfruttato il nuovo codice
anti-autoritario della opposizione tra chi comanda e chi ubbidisce,
chi ha il potere e chi non l’ha, intrecciando emancipazione sociale
e liberazione politica. Ma paradossalmente nel 1969, quando più
diffuso diventa lo slogan «operai e studenti uniti nella lotta» i
due movimenti di massa, quello operaio e quello studentesco, prendono
direzioni divaricanti. Il movimento politico di massa studentesco,
libertario e innovativo, esce, per così dire da se stesso, si infila
nel tradizionalismo politico e culturale e, via via, si intruppa
nell’universo competitivo dei micro-partiti. Questo avviene in
perfetta sincronia con una mobilitazione operaia che esprime invece
il momento più alto della sua creatività e della sua originalità
istituente di massa con la nascita dei delegati e dei consigli di
fabbrica...
Si possono vedere in essi
quegli «istituti di nuova democrazia sociale autogestionaria» che
indicava Panzieri nelle tesi sul controllo operaio. Questa dimensione
strutturata della democrazia di massa non significava l’annullamento
del partito e del sindacato ma implicava la realizzazione di una più
ricca e articolata presenza dell’associazionismo politico-sociale
che imponeva una ridefinizione del ruolo del partito e sia della
forma tradizionale del sindacato. La grande maggioranza delle forze
politiche nuove fu contro il movimento dei consigli operai (da Lotta
continua a Potere operaio). La conferenza operaia del Pci del 1970
indicò come pericolosa la «mitologia consiliare». Il Pci e la
corrente comunista maggioritaria nella Cgil tentarono di
neutralizzare e normalizzare la dirompente innovazione dei delegati
di gruppo omogeneo e dei consigli. La completa sindacalizzazione dei
consigli ne ridusse il loro respiro politico e, progressivamente,
anche la loro radicalità democratica. Vi fu molta letteratura
operaista ma poca connessione operativa, poca elaborazione
politico-culturale intorno agli operai dei consigli. Certamente
«medicina democratica», con Oddone e Maccacaro segna una importante
esperienza culturale e associativa che trae ispirazione diretta dalla
nuova realtà operaia, così come raccolgono i nuovi impulsi che
vengono dall’esperienza operaia i giovani giuslavoristi e i
magistrati del lavoro che danno origine a Magistratura democratica.
Solo la «sinistra sindacale» sembra scommettere la sua identità e
il suo destino sullo sviluppo di questa esperienza. Ma qual è il suo
retroterra politico? Quel piccolo e rissoso partito che è il Pdup?
L’orizzonte che apriva il movimento dei delegati e dei consigli non
poteva esaurire le sue potenzialità soltanto all’interno di un
progetto di innovazione del sindacato. Invocava anche più ambiziose
aperture politiche.
Occorrerebbe quindi
definire meglio quale è stata la «centralità operaia» subito dopo
il ‘69. Mariuccia Salvati mette in evidenza il fatto che alla
rottura sociale innovativa del biennio ‘68-69 fa riscontro sul
fronte politico «il recupero di culture politiche da immediato
dopoguerra». La modernizzazione e la democratizzazione della vita
sociale, la realizzazione di importanti riforme negli anni 70 va di
pari passo con una regressione della cultura politica sia di governo
che d’opposizione. A sinistra si pensi all’anacronistico recupero
di antiquati ideologismi e di pratiche autoritarie di organizzazione
nella cosiddetta «nuova sinistra», al partito comunista di
Berlinguer che mentre lancia il compromesso storico pretende di
affermare la diversità del codice genetico dei comunisti, per non
parlare della delirante deriva del terrorismo rosso.
Il nucleo culturale e
pratico emergente dalla rottura del biennio 68-69 che giustamente
Trentin individua nel personalismo libertario non ha sviluppi
culturali e politici a sinistra. La rottura della vecchia gabbia
gerarchica del «capitalismo sociale militarizzato» precipiterà in
una cultura di destra dell’individualismo liberista, non nel
personalismo solidaristico. Lo slogan di quegli anni era «questo non
è che l’inizio». Ci fu allora un nuovo inizio ma veniva
dall’altra parte, dalla parte dell’impresa..
Un primo segnale dei
limiti dell’egemonia operaia fu l’esplosione della lunga rivolta
di Reggio Calabria già nel luglio del ‘70. Nel biennio ‘68-69 le
lotte bracciantili con la solidarietà operaia all’eccidio di
Avola, le lotte di Nord e Sud contro le gabbie salariali, le
mobilitazione nelle isole industriali metalmeccaniche e chimiche del
Meridione avevano disegnato la possibilità di un «Nord e Sud uniti
nella lotta». Reggio Calabria ebbe un impatto forte a Torino nella
giovane classe operaia di provenienza meridionale. Fu questo rimbalzo
nel Nord che mi spinse immediatamente a scendere da Torino per
seguire e capire i fatti di Reggio Calabria. Ormai la questione
meridionale non si concentrava più nelle lotte bracciantili e nei
conflitti nei poli industriali ma si poneva come questione di disagio
e di ribellione nelle grandi e disgregate città meridionali (le
nuove marginalità, la devianza criminale, il sottogoverno). Le
generose vertenze per lo sviluppo del Sud, la riconquista di Reggio
da parte dei metalmeccanici nel 1972 furono atti prevalentemente
simbolici.
Ma il punto di svolta fu
il 1973. In quell’anno coincidono l’ultima prova di forza dei
metalmeccanici («occupazione» della Fiat, conquista
dell’inquadramento unico con il contratto nazionale) e la prima
crisi petrolifera che apre gli anni della stagflazione (dal ‘73 al
‘79 la lira perde il 50% del suo valore). Nelle grandi e medie
imprese che furono il cuore della conflittualità negli anni
precedenti si realizza ora una sorta di «tregua sociale» che
reggerà dal 1973 al 1979-80. Gli operai della grande e media
fabbrica in quegli anni appaiono come i «garantiti». Garantiti
nell’occupazione rispetto a una forza lavoro giovanile che
ristagnava sempre più nella marginalità sociale. Garantiti rispetto
all’inflazione: con l’accordo sul punto unico di contingenza del
1975 si realizzava un recupero salariale fortemente egualitario anche
rispetto alle qualifiche più alte del lavoro impiegatizio. (...)
Proprio in quegli stessi
anni si avvia in Italia, come risposta alla conflittualità, il
processo di innovazione tecnologica su base elettronica ed
informatica che negli anni successivi rivoluzionerà in tutto il
mondo lo scenario economico e sociale. L’introduzione massiccia di
macchinario moderno nell’industria italiana è datata 1972-73, con
un volume di investimenti tecnologici che collocano l’Italia tra i
Paesi occidentali che hanno un parco macchine utensili giovane ed
avanzato. La presenza del controllo numerico segue di poco quello
degli Usa. L’Italia diventa il secondo paese
in Europa, dopo la
Germania, nell’uso dei robot. Negli anni 70, prima dell’esplosione
dei personal computer e di internet, l’elettronica appariva
soprattutto come la tecnologia dell’automazione flessibile, la
tecnologia della robotizzazione delle macchine utensili, una
tecnologia sostitutiva non solo della mano ma anche del riflesso
cerebrale dell’operaio. Sembrava che l’utopia del capitalismo
iper-tecnicizzato fosse la fabbrica senza operai.
Con le nuove tecnologie
l’operaio fordista perde sempre più la capacità di controllo
dell’organizzazione del lavoro mentre il processo inflattivo lo
spinge alla rincorsa salariale: non più la contestazione dell’uso
delle forza lavoro ma richiesta di reddito, di essere come gli altri
nel senso di poter consumare come gli altri. L’egualitarismo perde
le rivendicazioni di potere, i contenuti di libertà nel lavoro, la
spinta di pari conoscenza e controllo. Si appiattisce nella richiesta
dell’uguaglianza nei consumi. Va sempre più sullo sfondo il
rapporto di produzione mentre emerge la distinzione del reddito: la
classe tende a diventare ceto sociale. La caratteristica decisiva
della rivoluzione elettronica e informatica stava spostandosi dalla
automazione del processo produttivo alla potenza della rete
informatica e quindi verso quella automazione di integrazione che
doveva rovesciare la tendenza di fondo di quasi due secoli di
rivoluzione industriale.
Dalla caldaia a vapore
della prima rivoluzione industriale alla catena di montaggio della
seconda rivoluzione industriale, da Manchester a Detroit, si era
sempre visto che al massimo di centralizzazione verticale del comando
del capitale doveva andare di pari passo il massimo di concentrazione
orizzontale di macchine e di lavoratori. Con la regolazione
informatica dei cicli di produzione in tempo reale questo lungo trend
storico si rovescia: centralizzazione verticale del comando va di
pari passo con decentramento orizzontale del lavoro. Ci si può
appropriare dei risultati della più estesa cooperazione tecnica
frantumando invece quella cooperazione sociale della
grande fabbrica che era
stata da sempre il veicolo della solidarietà e della coalizione
degli operai per il conflitto. Il decentramento centralizzante, la
dispersione dei punti di lavoro e la concentrazione della rete
informatica di controllo ci dicono di una utopia capitalistica che
non punta tanto alla fabbrica senza operai quanto agli operai senza
fabbrica.
La sconfitta alla Fiat
del 1980 che segnerà la vicenda sociale dei decenni successivi
riassume in sé i limiti accumulati dal sindacato e dagli operai
della grande fabbrica negli anni precedenti: il loro isolamento
sociale sia verso il basso ( il lavoro periferico e non tutelato) sia
verso l’alto (il ceto medio di fabbrica); la perdita di conoscenza
e di controllo dell’organizzazione del lavoro e del ciclo
produttivo (il contratto del 79 imposto non nella fabbrica ma sulle
piazze e nei disordini di strada.).
Il decentramento
industriale su scala globale e la terziarizzazione del mercato del
lavoro ridimensionano il ruolo centrale della fabbrica come luogo
della solidarietà, della coalizione e del
conflitto sociale. (...)
Ma credo che un fattore
importante dello slittamento ai margini del lavoro sia dovuto (in
Italia e in Europa) soprattutto dalla rottura del rapporto tra lavoro
e politica. Si sono esauriti quasi due secoli di socialismo politico,
che, pur nelle sue diverse manifestazioni, si presentava come un
progetto di trasformazione sociale radicato nella condizione del
lavoro subordinato. Il crollo del comunismo e il mutamento genetico
delle socialdemocrazie hanno spezzato questo nesso antico che poneva
in primo piano il ruolo dei lavoratori salariati nel processo storico
di mutamento.
Una disfatta catastrofica
del lavoro e delle sue organizzazioni tradizionali, la metamorfosi di
una configurazione particolare del mondo del lavoro vengono
interpretate come «fine del lavoro». C’è una forte carica
ideologica in queste affermazioni: la massiccia presenza sociologica
del lavoro nelle società contemporanee è empiricamente evidente;
ciò che si sottintende con la metafora
della «fine del lavoro»
è l’obbiettivo di una radicale svalutazione morale, giuridica,
sociale ed economica del lavoro. (...)
Stralci tratti da una
conferenza tenuta all’Università
popolare di Pesaro il 3 ottobre 2008.
In Autunno caldo. Il potere doveva
essere operaio, supplemento
al quotidiano “il manifesto”, novembre 2009
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