23 maggio 2015
La serie degli omicidi
razziali della polizia americana si allunga: in pochi mesi, Treyvor
Martin, Michael Brown, Eric Garner, Antonio Martin, David Scott… In
questa settimana, il senza casa dal simbolico soprannome di “Africa”
a Los Angeles; e Anthony Robinson, 19 anni, a Madison, Wisconsin, nel
giorno simbolico del cinquantenario della manifestazione per i
diritti civili a Selma mezzo secolo fa (e della sua violenta
repressione da parte della polizia). E non sono tutti: nel 2014 le
persone uccise dalla polizia sono oltre 600, di tutti i colori ma
soprattutto nere e latine.
La geografia di questi
omicidi compre l’intero territorio degli Stati Uniti: Florida, New
York, Missouri, California, Wisconsin, da sud a nord, da est a ovest.
Come dire che il problema non è Selma del 1965 ma l’America intera
del 2015. Ha ragione Barak Obama: Selma è adesso, ha detto, ed è
dappertutto.
Di che è fatto il
razzismo che alimenta questa serie di crimini? In primo luogo, il
disprezzo: le vite degli afroamericani contano meno (“black lives
matter” è stata la parola d’ordine delle proteste negli ultimi
mesi). L’impunità e lo spirito di corpo: nessun poliziotto ha
perso il posto e tanto meno è andato in carcere per avere ucciso un
nero. L’incompetenza: ma è mai possibile che l’unico modo che
hanno per controllare persone che reagiscono (o sembra che
reagiscano) ai tentativi di arresto sia di ammazzarle? E al tempo
stesso, l’addestramento: il racial profiling insegna a
vedere in ogni giovane nero un potenziale criminale. Di qui, l,a
paura e la paraonoia: in un paese dove tutti sono armati, ci si
aspetta che anche i sospettati lo siano, e al primo gesto si
risponde, come nel mitico West, sparando per primi – anche ai
disarmati.
Un tempo dicevamo che
l’America è il gendarme del mondo. Nelle periferie di St. Louis e
di Madison i gendarmi americani si comportano come il loro paese,
intrecciando la paura del terrorismo col senso della propria
onnipotenza, si è comportato in Irak e in Afghanistan dopo l’11
settembre (immaginandosi armi di distruzione di massa dove non ce
n’erano, come i poliziotti di Harlem e Jacksonville hanno scambiato
oggetti innocui per pistole).
Il 28 dicembre 2014 a
Jacksonville in Florida David Scott è ucciso da una squadra speciale
di polizia. L’ufficio dello sceriffo spiega: “Hanno visto che
aveva in mano un oggetto che sembrava una pistola, lo puntava come se
fosse una pistola, e gli hanno sparato 21 volte al torso, alle
braccia e alle gambe.” L’oggetto che aveva in mano, che ha
indotto gli agenti a un panico omicida, era una scatola avvolta in un
calzino. Nel 1999, a Harlem, Amadou Diallo è stato crivellato con 41
colpi di pistola perché i poliziotti avevano scambiato il suo
portafogli per una pistola.
E poi c’è la politica.
E vero che Selma non è mezzo secolo fa, ma oggi. Da una parte, senza
Selma non ci sarebbe Obama: sono i diritti civili strappati dopo
quella lotta che hanno reso possibile l’elezione di un presidente
nero. Ma è proprio l’elezione di un presidente nero che incita la
destra a rimettere in discussione quei diritti perché è il segnale
che tanti spazi e privilegi riservati ai bianchi non sono più
protetti come un tempo. Anche perché da Selma e da Obama gli
afroamericani hanno tratto l'incitamento a far valere i loro diritti
di cittadini americani, e in questo modo ne trasformano il senso.
Diceva Bruce Springsteen: ti possono ammazzare solo perché sei vivo
nella tua pelle americana.
Altrove ti possono
ammazzare perché sei vivo e basta. Ho cominciato elencando i nomi
delle vittime afroamericane negli Stati Uniti. Potremmo fare una
lista anche noi: Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri… Abbiamo una
forza politica nazionale in ascesa che invita tutti a proteggersi da
neri e immigrati sparando e uccidendo. Stiamoci attenti.
Dal blog di Alessandro
Portelli
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