Archiloco (da Wikipedia) |
La Grecia antica è il
luogo dove l'uomo ha coltivato con maggiore intensità e genio
inventivo la Parola Parlata. Quando ancora non possedevano la
scrittura, i greci hanno onorato i maestri della parola conservando e
tramandando i loro detti da una generazione all'altra. E il bello è
che i primi maestri della parola, in epoca pre-letteraria, furono i
poeti: Chieo. Museo, Omero.
Per lungo tempo la
cultura greca fu esclusivamente e poi prevalentemente orale; affidata
all'orecchio, alla memoria. Niente di meglio che la poesia, in una
società senza scrittura, per la trasmissione oracolare o
spettacolare di norme di costume, esperienze religiose, conoscenze di
portata pratica. Ed ecco perché, tra l'altro, la Grecia arcaica
mandava in giro i suoi aedi e rapsodi: non tanto perché artisti e
intrattenitori, sebbene lo fossero necessariamente e al più alto
grado, quanto perché educatori, autorizzati a suggerire stili di
vita e comportamenti, e informatori su ciò che allora era
conoscibile.
Ma anche quando la
scrittura cominciò a farsi strada, i greci non persero l'oralità
originaria della loro cultura. Chi altri avrebbe potuto inventare e
rendere universalmente noti due autori che non hanno lasciato scritto
nulla, Esopo, autore di favole, e Socrate, ostetrico dei dialoghi
filosofici? L'arte della comunicazione orale prosperava ancora nel
quinto secolo. Platone, che condannava i poeti della tradizione
perché irrazionali e suscitatori di passioni morbose, scriveva nella
lingua parlata in Attica al suo tempo e conduceva l'indagine
filosofica usando deliberatamente locuzioni quotidiane, proverbi,
modi di dire dell'espressività familiare (in proposito è appena
apparso un piacevole saggio di Stefano Jedrkiewicz: Platone e le
favole esopiche, in Prospettive Settanta).
Il terribile
Archiloco
Produzione e circolazione
dei libri diventano un fatto rilevante soltanto nella seconda metà
del V secolo. Fino a quell'epoca pochissimi erano in grado di leggere
i testi dei poeti, quando fossero trascritti alfabeticamente, forse
soltanto i professionisti della recitazione; viceversa, moltissimi
ascoltavano le performances pubbliche, e ristretti ma numerosi
gruppi godevano la comunicazione orale dei loro poeti (con rude
analogia possiamo pensare a circoli militari, associazioni politiche,
clubs conviviali, collegi femminili molto esclusivi, e così
via).
Una cultura orale
comporta che all'interno della lingua parlata si formi una lingua
colta. Per noi è difficile immaginare una lingua colta completamente
ignara della lettura. Ma qui sta l'eccezionalità del caso greco.
Quando perfezionarono l'alfabeto fenicio, inventando il primo sistema
fonetico di scrittura, i greci conoscevano da secoli l'arte di
costruire oralmente i versi.
Negli ultimi decenni
alcuni studiosi della grecità antica hanno prestato un'acuta
attenzione alle forme della cultura orale e alle complesse
transizioni dall'oralità alla scrittura, con risultati spesso
affascinanti. Se ne può avere un'idea leggendo le opere dell'inglese
Eric A. Havelock, pubblicate in italiano da Laterza, e l'eccellente
raccolta di saggi da lui curata insieme con Jackson P. Hersbell: Arte
e comunicazione nel mondo antico. Ora, presso lo stesso editore,
appare un'altra indagine che si muove nella sfera d'interessi
dell'oralità: Poesia e pubblico nella Grecia antica di Bruno
Gentili (pagg. 414, lire 36.000).
Se Havelock ha esplorato
il mondo dell'epica, il territorio congeniale a Gentili è quello
frammentario e denso di individualità della poesia lirica. L'opera è
costituita da una serie di sondaggi che insistono soprattutto sui
modi e le forme della comunicazione poetica nell'età arcaica. Il
filo conduttore mi sembra sia nell'idea di una sostanziale
pragmaticità, in senso molto lato, della poesia anche più
individuale. Pragmaticità vuoi dire che anche quando esprime vicende
esistenziali di un singolo, quella poesia, affidata all'esecuzione
più che alla lettura, ha una vibrante correlazione con la realtà
sociale e politica, svolge funzioni didattiche o rituali o in qualche
modo persuasorie e di suggestione entro ambienti determinati. Certo,
in alcuni momenti anche l'antico lirico greco sembra parlare per se
stesso, precedendo qualsiasi uditorio. Ma questa poesia è fatta per
essere detta, e agisce con un'efficacia che a noi è difficile
immaginare.
Ebbe enorme risonanza
nell'antichità, ricorda Gentili, il suicidio del nobile Licambe e
delle sue due figlie, provocato dai versi diffamatori di Archiloco.
La famigliola s'impiccò perché i veleni poetici del tremendo
Archiloco ne avevano «compromesso l'identità» civile e sacrale
(Licambe era un uomo pubblico, che ricopriva magistrature, e le
ragazze erano quasi certamente ministre di un tempio dedicato alla
dea Era).
Non che tutte le poesie
aggressive, al loro meglio, dovessero sortire generalmente tali
effetti micidiali; e non è detto, tanto per offrire un esempio
opposto, che Saffo, con la bella abilità della famosa ode ad
Afrodile («e quanto il cuore è vago di compire/ compilo tu,
combatti tu/con me», traduce Pontani), sia sempre riuscita a
persuadere un nuovo amore. Resta il fatto, ora più che mai avvertito
dagli studiosi, che la pragmaticità della lirica greca è
connaturata al senso tattile della voce, che «aderisce alle orecchie
degli uomini» (Simonide) e così s'insinua con folgori e incanti
nelle loro menti. È un piacere di concretezza e di «comprensione
creativa» leggere o rileggere con Gentili alcuni poeti amati fin dai
tempi del liceo; il lavorio filologico e storico restituisce ai testi
pregnanza di significati e suggestive coloriture d'epoca.
Se qualcuno, dai
frammenti fino a ieri superstiti, poteva non rendersi pienamente
conto della mirabile malizia di Archiloco, c'è ora la poesia
scoperta in un papiro di Colonia e pubblicata nel 1974. Gentili ne dà
una bellissima traduzione e un commento che illumina il carattere
serio-comico del realismo di Archiloco.
La prima parte della
poesia è un dialogo narrato dallo stesso autore, tra lui e una
ragazza, ambientato nel recinto sacro del tempio di Era. Il commento
fa osservare che è tipico nella società greca l'incontro di giovani
presso un santuario, luogo eletto per gli innamoramenti, i primi
approcci e le proposte di matrimonio. La ragazza, visto che il suo
interlocutore sembra mosso da un impellente desiderio erotico, gli
propone di sposare sua sorella, Neobùle, che è bella, tenera e
aspira al matrimonio. Archiloco risponde che, oltre alla congiunzione
nuziale vera e propria, la dea concede ai giovani «molte gioie» e
potrà bastarne una; al matrimonio ci si penserà con calma. Quanto a
Neobùle, che se la sposi qualche altro: è sfatta, folle,
insaziabile, infedele e ipocrita. Andiamo verso i giardini erbosi,
continua Archiloco, carina, non rifiutare, io voglio te che non hai
nessuno di quei difetti.
La nave di Alceo
Riferito il dialogo, la
poesia passa al racconto diretto: «Tutto questo dicevo e presa la
ragazza / la distesi sui floridi fiori / e l'avvolsi nel morbido /
mantello abbracciandole il collo, / aveva desistito (dalla fuga) /
pavida come un cerbiatto, / e le toccai dolcemente il seno / dove
essa mostrava la sua fresca pelle/ malìa di giovinezza; / mentre
tutto il bel corpo le palpavo / emisi il bianco sperma / sfiorando il
biondo pelo».
Le ingiurie a Neobùle e
il petting con la sorella; sacrilegio nel tempio di Era,
gravissima infrazione della ragazza ministra del culto! Vero o
verosimile l'episodio, la voce della poesia era così potente da
portare il disonore. Questa è la pragmatica del serio-comico, del
dileggio strutturato artisticamente, senza pudore ma con grazia
innegabile.
Se avessimo appartenuto
alla cerchia militare e politica di Archiloco, saremmo stati i primi
a deliziarci della sua incantevole perfidia, e in quale occasione? In
un simposio. Per lungo tempo, e soprattutto nell'epoca arcaica, il
simposio fu, per i circoli di sodali, momento ricorrente di intensa
socialità e di intrattenimento intellettuale. Qualcuno ritiene che
fu addirittura il luogo dove nacque la poesia individuale, quella che
noi moderni chiamiamo genericamente lirica (una scelta di studi in
proposito è stata raccolta da Massimo Vetta in Poesia e simposio
nella Grecia antica, Laterza, e se ne trae un quadro affascinante
sugli aspetti pragmatici, giocosi e rituali di tate istituto
conviviale).
Il privato dei greci ha
sempre una fortissima intonazione sociale, e fondamentalmente è il
carattere orale della comunicazione (e anche della concezione) a
costituire il terreno comune della poesia quale forma privilegiata in
tutti i suoi generi. Le analisi di Gentili concernenti poeti assai
diversi, quali Alceo e Anacreonte, Simonide e Pindaro e Saffo,
colgono la concretezza storica e ambientale di tali diversità
ritrovando il sorprendente spessore dei motivi tematici e stilistici.
Valga per tutti l'esempio
dell'allegoria della nave in Alceo. Secondo la definizione degli
antichi l'allegoria è una metafora continuata: sulla base di un
rapporto analogico e simbolico tra due campi semantici, si parla di
un evento nei termini di un altro del tutto autonomo dal primo. Così
in quattro frammenti superstiti (tre poetici e uno consistente nel
commento a una poesia perduta) Alceo rappresenta le vicende della sua
città-stato, Mitilene, raccontando le traversìe di una nave
fiaccata dalla tempesta, sbattuta contro uno scoglio, carcassa
invecchiata, appesantita dal sale e dalla sabbia. Ogni movimento
della nave, ogni atto dei marinai, vengono descritti con una lingua
viva e con precisione denotativa. Ma ogni espressione ha un valore
metaforico e allude alla storia di Mitilene tra VII e VI secolo,
considerata dal punto di vista della vecchia aristocrazia della
città. Parlando della nave Alceo trasmette alla sua fazione messaggi
politici che non devono essere compresi fuori della cerchia
nobiliare.
Anche l'allegoria ha
dunque una funzione pragmatica, di informazione, avvertimento,
esortazione a scegliere una certa condotta nell'urgere degli
avvenimenti. Con stupenda penetrazione Gentili ha individuato i
quattro momenti cui si riferiscono i frammenti allegorici e ha
ricostruito, mi azzardo a sostenere, un capitolo importantissimo
nella storia della poesia.
Costretto a trascurare
molti altri temi sondati da Gentili, vorrei concludere con una
riflessione suggeritami dal libro. Gentili si mostra molto
interessato, e giustamente, a quei fenomeni di comunicazione orale
che la poesia di tanto in tanto conosce, un po' misteriosamente, e
poi dimentica. E' accaduto nel nostro Settecento, quando Alfieri
lodava ammirato l'estro dei poeti estemporanei dotti («Nasce appena
il pensiero, e già s'innostra / di poetico stil; né mai vien mozza
/ la voce, o dubitevole si prostra...»). E' accaduto, in modi
completamente diversi, in tempi recentissimi, nelle avanguardie
americane della poesia «processuale».
Ma di là da queste
episodiche consonanze, leggendo nel modo concreto di Havelock e di
Gentili i poeti greci si sente uno strano fascino e turbamento. E'
come se leggessimo intorno a qualche cosa che ci tocca molto da
vicino; come se venisse il sospetto di un'attualità germinale,
potenziale, virtuale, scegliete l'aggettivo che vi pare più giusto,
contenuta nei grani d'energia di quei frammenti antichi. Eppure, noi
abbiamo relegato la poesia in un angolo, l'abbiamo separata da tutto,
abbiamo perfino teorizzato che il suo destinatario non è un pubblico
determinato ma il risibile uditorio costituito dagli stessi letterati
che la poesia la scrivono o la criticano. La poesia, per avere senso,
deve rivolgersi a una cerchia determinata, grande o piccola non ha
importanza. Forse l'attualità dei poeti greci arcaici è l'attualità
di domani? O forse è l'ultima potente finzione che ci trasmettono?
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma 1984
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