«So una sola cosa,
importante / rispondere con terribili mali a chi mi fa del male»:
così, senza mezzi termini, Archiloco, il primo grande lirico greco.
Odio e amore: «Alcuni dicono che un esercito di fanti, / altri di
cavalieri, altri di navi, / sia la cosa più bella sulla terra nera;
/ io dico che la cosa più bella è ciò che si ama». Saffo, «crine
di viola», fissa in termini perentori l'eterno paradigma della
condizione amorosa, altrove analizzata in tutte le sue
contraddittorie manifestazioni; dal desiderio struggente per la
lontananza dell'amata («E ora d'Anattoria ch'è lontana / mi desta
il ricordo: / vorrei vedere di lei l'amato incedere / e il luminoso
fulgore del viso»), all'angoscia per la vana attesa («Tramonta ia
luna / e le Pleiadi: è a mezzo / la notte, è trascorsa l'ora: / e
io dormo sola»), alla gelosia che stravolge («Mi sembra simile agli
dei / quell'uomo che ti siede di faccia / e da vicino dolcemente
ascolta te che parli / e ridi d'amore: questo / mi sconvolge il cuore
nel petto / ...sono più verde dell'erba / e sembro vicina a
morire»).
La lirica greca, anche se
conservatasi in misura così ridotta, è un fenomeno artistico unico,
in quella sua perfetta rispondenza dell'uso magistrale della lingua
poetica a un mondo di interessi e di passioni di sbalorditiva finezza
e complessità. Alcmane, vecchio, sente la nostalgia della giovinezza
e dell'amore: «O fossi io, fossi io il gabbiano, / che sul fiore
dell'onda vola insieme alle alcioni!»; Alceo gioisce con primitiva
violenza per la morte dell'odiato tiranno di Mitilene: «Ora bisogna
ubriacarsi e bere a forza / perché è morto Mirsilo», ma avverte
anche lo smarrimento dell'incerta situazione politica, nella celebre
allegoria della nave: «Non comprendo la direzione dei venti: / da
questa parte rotola un'onda, / di là un'altra e noi in mezzo / siamo
portati con la nera nave / fiaccati dal violento turbine».
Bruno Gentili, oggi tra i
più profondi conoscitori della poesia greca, sa cogliere come pochi
altri gli aspetti più significativi del mondo della lirica arcaica,
in quel lasso di tempo che va da Omero all'età di Pcricle. Il suo
libro offre una brillante selezione di una tematica in sé
ricchissima: si vedano soprattutto i capitoli che affrontano il
rapporto tra oralità e cultura arcaica, il nesso tra poesia e
musica, e chiariscono il carattere di originale performance
del poeta che recitava di fronte al suo pubblico, riscoprendo in
definitiva il valore autentico di una poesia che «diveniva lo
strumento precipuo dell'integrazione dell'individuo nel contesto
sociale». L'analisi del rapporto tra poeta, committente e pubblico
conduce Gentili a chiarire la collocazione dell'artista nel contesto
globale della società greca e a evidenziare l'intreccio dei fattori
politico-ideologici, artistici e pratici che ne caratterizzava la
figura e l'attività complessiva.
Si riesce allora a capire
perché Pindaro proclamasse di non essere un «facitore di statue» e
di non produrre «figure che stanno immobili sul piedistallo», ma
orgogliosamente rivendicasse la gloria universale e duratura
assicuratagli dalla sua voce di poeta. E dunque, la «parola», che
ancora più del «marmo», procurava fama e, con essa, dracme: tante.
EUROPEO/24 MARZO 1984
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