Nel sito “vibrisse”
Giulio Mozzi cura una serie di articoli dal titolo La formazione
della scrittrice. A me è parso
assai interessante per la scelta “provinciale” questo di Emilia
Bersabea Cirillo, di cui finora nulla ho letto. Se potrò, colmerò la lacuna, mi piace l'idea di una scrittura territorializzata,
legata ai luoghi. (S.L.L.)
Emilia Bersabea Cirillo |
Ho sempre letto
moltissimo, con la curiosità e l’accanimento di chi cerca un aiuto
ai sogni. Di solito compravo i libri attratta dal titolo e dalla
copertina. Ma soprattutto leggevo nella biblioteca dei ragazzi,
giornate intere con la testa e il cuore nelle storie di altri.
Arrivavo alle dieci del mattino e restavo a leggere fino all’una.
Avevo una lista di autori: Brontë, Alcott, Colette, Dickens, Barrie,
a questi si aggiunsero Harper Lee con il suo Il buio oltre la
siepe, la Capanna dello zio Tom, Pattini d’argento,
la Piccola sconosciuta di H. V. Gebhard, Davy Crockett di
E.L. Meadowcroft, Polyanna, e poi, man mano alcune poesie di
Pascoli e Il vecchio e il mare di Hemingway.
Fu allora,
nell’adolescenza, che cominciai a scrivere. Mi sembrava un’arte
così preziosa, che volevo provare anche io. Ma chi non comincia a
scrivere nell’adolescenza. Ho ancora conservate alcune cose,
scritte su un quaderno a quadretti, che non ho più riletto. Scrivevo
storielline e mi dannavo: un po’ perché non venivano come io
volevo, un po’ perché mi sentivo, proprio perché scrivevo,
diversa dagli altri. Ho cominciato a scrivere con maggior fiducia in
me stessa dopo aver letto Piccole donne ed essermi innamorata di Jo
March. Anche questo, credo sia stata una febbre comune a tante donne.
Solo che a me questa febbre non è più passata e ho imparato a
conviverci, facendola diventare una parte di me necessaria e
importante. Scrivevo raccontini d’amore, verso i quindici anni, un
po’ scialbi, un po’ prevedibili. Ho letto molto allora. I libri
più significativi sono stati Gita al faro di V. Woolf,
Riflessioni su Christa T. di C. Wolf, La luna e i falò
di C. Pavese e i racconti di K. Mansfield.
Ho capito che scrivere è
un fatto assolutamente solitario, che richiede silenzio, tempo, cura.
La scrittura è cercare il proprio sguardo, che si compie attraverso
le parole e le storie : una cosa è una cosa è una cosa, e non solo
per come ci appaia. Certo, ci vuole una stanza tutta per sé, e
tremila ghinee al mese di rendita, tanto per citare Virginia, che è
stata la mia prima grande maestra. Ma non ho rendite, e non ho
neanche una stanza tutta per me. Scrivo a casa, a matita, su quaderni
rilegati, neri e rossi, dalla carta sottile, e batto a computer,
tutti i giorni che posso. L’altro mio tempo è il lavoro d’ufficio,
la cura della mia famiglia, una continua mediazione, un continuo
rincorrere. Ma questa molteplicità, in fondo, mi è di aiuto, perché
mi riporta di continuo alla mia vita materiale.
Non perché sono
architetto, penso che scrivere abbia a che fare con un luogo, il
proprio, quello che ha visto per la prima volta, che si costruisce e
compone dentro osservandolo tutti i giorni, sentendo le voci, le
inflessioni, vedendo i colori, percorrendolo a piedi, scrutando i
paesaggi, rinvenendo leggende; la scrittura deve testimoniare
l’appartenenza ad un luogo, così che tu possa essere
riconoscibile; come per la Sicilia di Vittorini, le langhe di Pavese,
la Londra di Virginia, la Torino di Natalia, la Napoli di Anna Maria
Ortese. Chi scrive parte sempre da un luogo per dire se stesso. I
luoghi sono già la tua scrittura. Il mio incontro con Gianni Celati,
con i suoi libri fatti di silenzi e di passeggiate padane, di grandi
solitari incontrati nella nebbia è stato fondamentale. Si è aperto
il mondo degli scrittori di provincia: Delfini, D’Arzo, Flannery O’
Connor, ma anche Faulkner, con il suo bellissimo Una rosa per
Emily.
Io non conoscevo
l’Irpinia, prima del 23 novembre 1980. Quella che sarebbe diventata
la scena delle mie scritture mi era ancora ignota. Pensavo che il
dentro, i paesi dell’interno, fossero bui e neri, poveri e freddi.
Volevo aria e mare: Napoli, per dirla in una parola. Ma poi è venuto
il terremoto e le cose si sono capovolte, dentro di me. Non avevo
altro che macerie e crolli e paesi fangosi che scendevano a valle. Ed
io ero là, in quel fango e in quelle pietre e non volevo andare più
via. Mi dicevo, ma allora se resto ci sarà pure un motivo, se resto
e voglio raccontare, devo partire da quello che è sotto i miei occhi
e dalle parole che ascolto. Ho così girato per i paesi, secondo un
itinerario casuale, dove il mio mestiere di architetto, mi portava.
«[…]Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo[…] »
conclude meravigliosamente Celati, in Verso
la foce.
Da allora scrivo
d’Irpinia. Quando scrivo il nome di un paese sulla carta, il paese
smette di essere interno di una realtà interna, penso che sono un
passo fuori da loro e loro sono già un passo lontano da me. Penso
che sto mettendo sulla carta pezzi di mondo in cui faccio andare a
vivere, amare, sognare o morire i miei personaggi. Scrivo di storie
quotidiane, della vita che accade: la malinconia della partenza dei
figli, della difficoltà di restare in luoghi difficili, delle
solitudini che contiamo ogni giorno, di improvvisi ritorni che
scompigliano un ordine apparentemente rassicurante. Sono il mio
mondo. E cosa è scrivere, se non dire il proprio mondo?
Da “vibrissewordpress”
- La formazione della scrittrice, 28,
21 luglio 2014 (by
Giulio Mozzi)
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