22.5.15

Cortazar inaspettato (Graziella Pulce)

I cassetti degli scrittori di genio dovrebbero essere sempre capienti e profondi, con doppio fondo che dissimuli la ricchezza contenuta, capaci di tenere in gestazione quanto più materiale possibile e partorirlo con regolarità nel tempo, anche dopo la morte dell’autore perché il lettore orfano possa almeno per qualche tempo trovare consolazione dalla pubblicazione degli scritti inediti, sparsi o introvabili, sepolti vivi nelle biblioteche o nelle emeroteche e bisognosi di quel soffio vitale che solo la lettura è in grado di infondere nelle fibre altrimenti morte della carta.
Con Carte inaspettate (a cura di A. Bernárdez e C. Álvarez Garriga, trad. di J. Riera Rehren, pref. di A. Tabucchi, Einaudi, pp. 318, € 20,00) i devoti italiani di Julio Cortázar ricevono pane per i loro denti, anche se, rispetto all’originale, Papeles inesperados, del 2009, l’indice del volume è stato ridotto per tutte le edizioni non in lingua spagnola secondo la volontà della curatrice.
Vi si trovano testi inediti o usciti in giornali e riviste emai pubblicati in volume. Oltre a racconti, poesie, interviste, interventi teorici, si possono leggere tre storie di cronopios e famas, alcuni episodi di Un tal Lucas e anche la prefazione inedita a un volume di racconti. I pezzi, organizzati secondo un criterio tematico, sono ripartiti in Storie, Momenti, Circostanze, Degli amici, Altri territori, In fondo al cassetto, Interviste allo specchio, Poesie.
Il testo dunque si presenta ovviamente frammentario, una frammentarietà che però non risulta accidentale ma spiccatamente ontologica. Per Cortázar, giudiziosamente illogico e centrifugo per natura, cedere all’impulso di uscire di traiettoria è tutt’uno rispetto alla sua vocazione di narratore. Il fantastico in lui non è un dono ricevuto, né una modalità astrattamente letteraria di rappresentare la realtà, quanto la risposta stilistica alle incongruenze del suo esistere. Scrivere significa innanzitutto cogliere l’intrinseco fascino di una storia, farla risuonare all’interno della propria cultura, del proprio linguaggio, della costellazione mitologica che intesse i sogni di una nazione, per poi potenziarla con il rigore estenuante dell’impegno letterario, farle assumere la forma precisa che di quella materia porti in salvo l’irripetibile fosforescenza e ne liberi appieno la tensione creativa sotterranea. Quello che è uno dei più straordinari narratori del fantastico e del possibile è stato infatti anche un attentissimo, algido teorico e codificatore della prosa.
L’autore di personaggi dalle malcerte identità, abitatori di mondi paralleli e discontinui, refrattari a qualsiasi ipotesi di logica razionalizzante ha fatto base in un luogo così ben determinato e nitidamente connotato in senso politico e civile, come testimonia anche l’intervista a «Life» (1969), qui raccolta. Anche la sua erranza geografica si rivela tutta inscritta nei termini di una strenua fedeltà ai valori umani e civili, calpestati in Argentina come a Cuba, terra cui ha continuato a guardare come a una patria psichica.
Carte inaspettate è pertanto in grado di presentare, come spesso accade quando si tratta di libri postumi, un quadro ragionato della parabola dello scrittore, in grado di restituire al lettore la topografia dei due versanti: quello operativo e quello programmatico. Ciò che rende particolarmente
interessante il risultato è l’esplicitazione del dialogo continuo intrattenuto dal narratore con la propria vocazione letteraria soprattutto in termini di etica dello stile. Cortázar non fa nulla per rendere più facile l’accesso al mondo che propone: il rivoluzionario Cortázar sa che la letteratura per essere veramente popolare non può trattare il lettore come un bambino da portare per mano. Per fare buona letteratura il narratore deve lavorare sulla propria scrittura e fare in modo che essa si carichi come una dinamo e sia quindi possibile al lettore partecipare a quella energia senza che se ne perda nulla. Se sia buona o cattiva letteratura sarà infatti solo il lettore a deciderlo. Questa la democraticissima legge che sovrintende al lavoro dello scrittore, un lavoro che ha a che fare con il numinoso, un numinoso che non sta in un altrove lontano, ma risiede precisamente nel qui e ora in cui abitano i mortali. Ma la presenza del numinoso può essere percepita solo se lo scrittore trova un punto eccentrico (rispetto al tempo o allo spazio), un punto che è intervallo di discontinuità che si rivela per epifanie, intercapedine tra universi paralleli. O, come scrive in Manoscritto trovato accanto a una mano: «in una di quelle assurde distrazioni che ci capitano quando siamo molto concentrati».
Precisamente per questa ragione Cortázar sostiene che non esiste altra letteratura realistica se non quella fantastica, quella che si insinua nelle pieghe e nei recessi del reale linguisticamente codificato e decifra i segni in base a un cifrario che ne rende di fatto il significato alternativo rispetto alla pratica comune. La scrittura di Cortázar è primariamente un’esperienza nel backstage della mente, uno spazio simile a quello in cui precipita l’Alice carrolliana: dove niente è come dovrebbe essere, ma come potrebbe essere se solo la mente abbandonasse i meccanismi che le consentono una lettura automatica ed economica dei fenomeni.
Cortázar è quel demiurgo creatore che è perché getta un fascio di luce che rivela al lettore un universo vivente di vita propria e completamente sottratto al controllo dell’autorità razionale, un mondo nel quale l’accadere dei fenomeni si capovolge, la conseguenza si estroflette in causa e l’ordine si rivela un accidente momentaneo del disordine. Una volta che la scrittura sia riuscita a rendere tangibile e visitabile l’altra parte dello specchio nell’autore come nel lettore, le cose non possono essere più come prima: il guanto è stato rovesciatoe il dentro impensabile e oscuro calpesta la terra alla luce del sole nella sua non più negabile esistenza.
Per entrare in questa altra dimensione si possono seguire vari ‘conigli’ nelle profondità scavate secondo traiettorie invisibili da fuori. Uno di questi è il refuso tipografico, su cui argomenta con nitido capriccio in Lucas, suoi refusi, l’errore rapido come un ratto, l’errore-cavallo-di-Troia che si introduce in territorio nemico e ne disarticola le difese.
Un altro è la resa attiva allo straniamento e per questo si legga il fulminante Peripezie dell’acqua, uno dei pezzi più stupefacenti nel quale l’inclinazione al mistero si intreccia a un umorismo irresistibile, dove si dimostra come una mente implacabilmente palindroma possa ottenere risultati strabilianti a partire da ingredienti semplicissimi. Già dall’incipit («Basta conoscerla abbastanza per capire che l’acqua è stanca di essere un liquido») abbiamo l’immagine di un universo noto reso definitivamente irriconoscibile dalla potenza di un linguaggio che permette una silenziosa ma definitiva irruzione dell’altro nel nostro mondo stanco di essere insensatamente e tetramente reale. La linea è quella gloriosa e antica che passa, a dir poco, per Cervantes, Poe, Kafka, Lautréamont, Borges, fino ad arrivare almeno a Calvino e Manganelli. Di Cortázar il consanguineo e proximus Tabucchi addita due elementi chiave: da un lato l’amore per i giochi combinatori e dunque le infinite possibilità della matematica come pure del linguaggio, dall’altro «la misteriosa algebra della Cabala», delle innumerabili variabili che governano tanto un colpo di dadi quanto le umane vicende. Ossimoro solo apparente poiché entrambi sono governati da qualcosa che li trascende, quel nonnulla che come il bambino di cui parla Eraclito tiene in mano e determina con felice irresponsabilità il corso dei mondi.


Alias domenica – il manifesto, 26 febbraio 2012

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