I cassetti degli
scrittori di genio dovrebbero essere sempre capienti e profondi, con
doppio fondo che dissimuli la ricchezza contenuta, capaci di tenere
in gestazione quanto più materiale possibile e partorirlo con
regolarità nel tempo, anche dopo la morte dell’autore perché il
lettore orfano possa almeno per qualche tempo trovare consolazione
dalla pubblicazione degli scritti inediti, sparsi o introvabili,
sepolti vivi nelle biblioteche o nelle emeroteche e bisognosi di quel
soffio vitale che solo la lettura è in grado di infondere nelle
fibre altrimenti morte della carta.
Con Carte inaspettate
(a cura di A. Bernárdez e C. Álvarez Garriga, trad. di J. Riera
Rehren, pref. di A. Tabucchi, Einaudi, pp. 318, € 20,00) i devoti
italiani di Julio Cortázar ricevono pane per i loro denti, anche se,
rispetto all’originale, Papeles inesperados, del 2009,
l’indice del volume è stato ridotto per tutte le edizioni non in
lingua spagnola secondo la volontà della curatrice.
Vi si trovano testi
inediti o usciti in giornali e riviste emai pubblicati in volume.
Oltre a racconti, poesie, interviste, interventi teorici, si possono
leggere tre storie di cronopios e
famas, alcuni episodi di Un tal Lucas e anche la
prefazione inedita a un volume di racconti. I pezzi, organizzati
secondo un criterio tematico, sono ripartiti in Storie, Momenti,
Circostanze, Degli amici, Altri territori, In fondo al cassetto,
Interviste allo specchio, Poesie.
Il testo dunque si
presenta ovviamente frammentario, una frammentarietà che però non
risulta accidentale ma spiccatamente ontologica. Per Cortázar,
giudiziosamente illogico e centrifugo per natura, cedere all’impulso
di uscire di traiettoria è tutt’uno rispetto alla sua vocazione di
narratore. Il fantastico in lui non è un dono ricevuto, né una
modalità astrattamente letteraria di rappresentare la realtà,
quanto la risposta stilistica alle incongruenze del suo esistere.
Scrivere significa innanzitutto cogliere l’intrinseco fascino di
una storia, farla risuonare all’interno della propria cultura, del
proprio linguaggio, della costellazione mitologica che intesse i
sogni di una nazione, per poi potenziarla con il rigore estenuante
dell’impegno letterario, farle assumere la forma precisa che di
quella materia porti in salvo l’irripetibile fosforescenza e ne
liberi appieno la tensione creativa sotterranea. Quello che è uno
dei più straordinari narratori del fantastico e del possibile è
stato infatti anche un attentissimo, algido teorico e codificatore
della prosa.
L’autore di personaggi
dalle malcerte identità, abitatori di mondi paralleli e discontinui,
refrattari a qualsiasi ipotesi di logica razionalizzante ha fatto
base in un luogo così ben determinato e nitidamente connotato in
senso politico e civile, come testimonia anche l’intervista a
«Life» (1969), qui raccolta. Anche la sua erranza geografica si
rivela tutta inscritta nei termini di una strenua fedeltà ai valori
umani e civili, calpestati in Argentina come a Cuba, terra cui ha
continuato a guardare come a una patria psichica.
Carte inaspettate
è pertanto in grado di presentare, come spesso accade quando si
tratta di libri postumi, un quadro ragionato della parabola dello
scrittore, in grado di restituire al lettore la topografia dei due
versanti: quello operativo e quello programmatico. Ciò che rende
particolarmente
interessante il risultato
è l’esplicitazione del dialogo continuo intrattenuto dal narratore
con la propria vocazione letteraria soprattutto in termini di etica
dello stile. Cortázar non fa nulla per rendere più facile l’accesso
al mondo che propone: il rivoluzionario Cortázar sa che la
letteratura per essere veramente popolare non può trattare il
lettore come un bambino da portare per mano. Per fare buona
letteratura il narratore deve lavorare sulla propria scrittura e fare
in modo che essa si carichi come una dinamo e sia quindi possibile al
lettore partecipare a quella energia senza che se ne perda nulla. Se
sia buona o cattiva letteratura sarà infatti solo il lettore a
deciderlo. Questa la democraticissima legge che sovrintende al lavoro
dello scrittore, un lavoro che ha a che fare con il numinoso, un
numinoso che non sta in un altrove lontano, ma risiede precisamente
nel qui e ora in cui abitano i mortali. Ma la presenza del numinoso
può essere percepita solo se lo scrittore trova un punto eccentrico
(rispetto al tempo o allo spazio), un punto che è intervallo di
discontinuità che si rivela per epifanie, intercapedine tra universi
paralleli. O, come scrive in Manoscritto trovato accanto a una
mano: «in una di quelle assurde distrazioni che ci capitano
quando siamo molto concentrati».
Precisamente per questa
ragione Cortázar sostiene che non esiste altra letteratura
realistica se non quella fantastica, quella che si insinua nelle
pieghe e nei recessi del reale linguisticamente codificato e decifra
i segni in base a un cifrario che ne rende di fatto il significato
alternativo rispetto alla pratica comune. La scrittura di Cortázar è
primariamente un’esperienza nel backstage della mente, uno
spazio simile a quello in cui precipita l’Alice carrolliana: dove
niente è come dovrebbe essere, ma come potrebbe essere se solo la
mente abbandonasse i meccanismi che le consentono una lettura
automatica ed economica dei fenomeni.
Cortázar è quel
demiurgo creatore che è perché getta un fascio di luce che rivela
al lettore un universo vivente di vita propria e completamente
sottratto al controllo dell’autorità razionale, un mondo nel quale
l’accadere dei fenomeni si capovolge, la conseguenza si estroflette
in causa e l’ordine si rivela un accidente momentaneo del
disordine. Una volta che la scrittura sia riuscita a rendere
tangibile e visitabile l’altra parte dello specchio nell’autore
come nel lettore, le cose non possono essere più come prima: il
guanto è stato rovesciatoe il dentro impensabile e oscuro calpesta
la terra alla luce del sole nella sua non più negabile esistenza.
Per entrare in questa
altra dimensione si possono seguire vari ‘conigli’ nelle
profondità scavate secondo traiettorie invisibili da fuori. Uno di
questi è il refuso tipografico, su cui argomenta con nitido
capriccio in Lucas, suoi refusi, l’errore rapido come un
ratto, l’errore-cavallo-di-Troia che si introduce in territorio
nemico e ne disarticola le difese.
Un altro è la resa
attiva allo straniamento e per questo si legga il fulminante
Peripezie dell’acqua, uno dei pezzi più stupefacenti nel
quale l’inclinazione al mistero si intreccia a un umorismo
irresistibile, dove si dimostra come una mente implacabilmente
palindroma possa ottenere risultati strabilianti a partire da
ingredienti semplicissimi. Già dall’incipit («Basta conoscerla
abbastanza per capire che l’acqua è stanca di essere un liquido»)
abbiamo l’immagine di un universo noto reso definitivamente
irriconoscibile dalla potenza di un linguaggio che permette una
silenziosa ma definitiva irruzione dell’altro nel nostro mondo
stanco di essere insensatamente e tetramente reale. La linea è
quella gloriosa e antica che passa, a dir poco, per Cervantes, Poe,
Kafka, Lautréamont, Borges, fino ad arrivare almeno a Calvino e
Manganelli. Di Cortázar il consanguineo e proximus Tabucchi
addita due elementi chiave: da un lato l’amore per i giochi
combinatori e dunque le infinite possibilità della matematica come
pure del linguaggio, dall’altro «la misteriosa algebra della
Cabala», delle innumerabili variabili che governano tanto un colpo
di dadi quanto le umane vicende. Ossimoro solo apparente poiché
entrambi sono governati da qualcosa che li trascende, quel nonnulla
che come il bambino di cui parla Eraclito tiene in mano e determina
con felice irresponsabilità il corso dei mondi.
Alias domenica – il
manifesto, 26 febbraio 2012
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