20.5.15

Vasco Pratolini. È Firenze il grande personaggio dei suoi romanzi (Ottavio Cecchi)

“Non mi riuscì, allora, né mi riuscirebbe oggi, pronunciare una sola parola su quel dibattito che accompagnò fino alla nausea l'uscita del romanzo che Pratolini intitolò Metello, con un nome proprio di persona molto diffuso ancor oggi tra gli uomini nati a Firenze fino a 40-50 anni fa. Il giorno che a Pratolini dettero la laurea honoris causa all'Università di Firenze, quando tutto fu finito e i due anziani laureati (l'altro era Romano Bilenchi) si scambiavano, in casa di Bilenchi, i saluti e gli abbracci, dissi a Pratolini una cattiveria che l'amicizia mi consentiva: «A quei tempi - gli dissi - ai tempi delle discussioni intorno al realismo, tu ascoltasti troppo i tuoi consiglieri». Pratolini mi chiese: «Di chi parli?». «Parlo - gli risposi - di coloro che, scrivendo di te e della tua opera, invocavano Balzac. Tu non sei un visionario, un fantastico. Ma quei tali dimostravano di non aver letto bene Balzac: che è un visionario, un fantastico. Invece, te lo portavano a esempio di realismo, di illustratore di costumi, di virtù e di vizi di una società. Balzac come Beltrame della vecchia Domenica del Corriere». Pratolini mi dette torto: «Non è vero, non li ascoltai». «Che tu li abbia ascoltati o no, ormai ha poca importanza. A saper leggere i tuoi libri, si conclude che quei tali non avevano letto bene né Balzac né te».
Ho ripensato a quel dialogo, ieri, quando mi è stato detto che Pratolini era morto. So che quella mia cattiveria gli aveva fatto piacere. Mancò il tempo, allora, di continuare il discorso. Gli volevo dire un'altra cosa che in parte cercai di esprimere quando uscì un esile libretto dove compariva una figura femminile, una «bandolera», quella sì tutta pratoliniana, bella e resoluta. In filigrana appariva la città, Firenze, nella quale si consumavano i giorni di una educazione sentimentale, politica e letteraria. Scrivendo, mi sfuggirono parole come «disperazione», «giovinezza disperata». Pratolini mi chiamò al telefono e, ridendo, mi disse: «Io sarei quel giovane disperato...».
Non so se riuscirò ora a dire ciò che avrebbe completato questi colloqui e rivelato il senso di un vecchio discorso che mi preme. Tutta l'opera di Pratolini ha un solo personaggio: Firenze, una Firenze perduta, una Firenze «malattia». Dica, chi vuole, che questo è il versante lirico. Sta di fatto che quando la memoria ricorre alle pagine pratoliniane, subito compaiono immagini, atmosfere, nomi, profumi, voci di una città perduta che ormai trovano salvezza soltanto nei libri di Pratolini. Le generazioni nate sotto il fascismo e quelle venute dopo, hanno fatto appena in tempo, o non hanno fatto in tempo, a conoscere quella città. Che, in fin dei conti, non è una città reale, ma un luogo irreale in cui si rifugiano le memorie, i ricordi e quel sentimento della contemporaneità che è la malinconia. Questo sentimento trafigge l'opera di Pratoìini, l'attraversa e la strappa ai dibattiti oziosi. È una città irredimibile. Lo sa bene Pratolini che, a quest'opera di redenzione di un bene perduto, ha ispirato tutti i suoi libri. È questa la via maestra che porta fino alle ascendenze europee i romanzi di uno scrittore che la fretta delle catalogazioni ha consegnato al neorealismo o al populismo o al patetismo di un'educazione sentimentale di quartiere. Come dire che la Firenze di Pratolini somiglia alla Parigi di Baudelaire revisitata dai flaneurs benjaminiani o a quella Parigi di Delacroix scomposta e ricomposta (di questi arbitrii di Delacroix, se ne accorse bene Italo Calvino) secondo le necessità della pittura e l'ordine di una realtà che non ha niente o poco a che fare con ia storia. Semmai, sono queste le vie attraverso le quali si può ricongiungere l'opera di Pratolini a Balzac.
Gli operai delusi, le donne amate e tradite, i garzoni di bottega invidiosi del padrone, i fascisti e gli antifascisti, i contadini che scendono in città per tentare la fortuna in un'Italia che si affaccia all'Europa, i socialisti che finiscono in galera o si rassegnano al silenzio quando la speranza muore, tutta questa gente che traversa le strade di Firenze compone l'universo pratoliniano.
Si ripensa a quel venditore di «chicche» che la sera precedente la notte dell'apocalisse se ne sta fermo nel vento gelido di piazza della Signoria e non sa capacitarsi del vuoto che ha intorno a sé. Egli porta il nome di un celebre caffè della raffinata Firenze dei monumenti, delle lapidi, della memoria e della storia. Ma non è lui, non è il soprannome che gli hanno attribuito a fare il personaggio: è il grande vuoto che ha intorno. È la malinconia, il sentimento di un'epoca. Di questo sentimento è materiata l'immagine di Firenze nei romanzi di Vasco Pratolini.

“l'Unità”, 13 gennaio 1991

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