Dell'ampio lascito
letterario di Marcuse che da qualche tempo si viene pubblicando in
Germania e in Usa, gli scritti ora tradotti in italiano nel volume
Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948 (a
cura di Carlo Galli e Raffaele Laudani) costituiscono uno dei
tasselli più significativi. Si tratta di brevi saggi dedicati
prevalentemente all'analisi della società e della mentalità
nazionalsocialista, che Marcuse scrive anche in veste di consulente
dei servizi di intelligence statunitensi; la collaborazione di
Marcuse con il governo americano durò fino al 1951, quando
finalmente il filosofo potè sbarazzarsi di questo incarico per
intraprendere una carriera universitaria in America.
I rapporti scritti per il
Dipartimento di Stato non sono però riducibili alla misura di
scritti d'occasione. Si coglie pienamente la loro originalità se li
si legge mettendo a fuoco innanzitutto non tanto le tesi che Marcuse
sostiene, quanto quelle che attacca, o di cui egli dimostra
l'inconsistenza smontando alcune visioni troppo facili del nazismo,
che godonoancora di larga circolazione.
La prima tesi che Marcuse
decostruisce è che la Germania nazista possa essere definita uno
“Stato totalitario”. Alla apparente banalità e incontestabilità
di questa formula Marcuse risponde: «se vi è qualcosa di
totalitario nel nazionalsocialismo - scrive - questo non è
certamente lo Stato». Innanzitutto lo Stato moderno, dice Marcuse,
si caratterizza per la separazione dalla società civile e dalla
sfera privata, per il monopolio del potere coercitivo che esso
detiene, per il dominio della legge nell'ambito della quale lo Stato
opera come sistema di amministrazione razionale. Nel momento però in
cui queste caratteristiche, proprie dello Stato liberale, vengono a
cadere (nel nazismo non vi è più una sfera privata protetta, la
violenza è gestita direttamente dal Partito, la legge è
modificabile a piacimento) è lo stesso concetto di Stato che entra
in crisi. E piuttosto, come aveva indicato Franz Neumann in
Behermoth, si dovrebbe parlare di un non-Stato, di «una forma
di società in cui i gruppi dominanti controllano il resto della
popolazione in modo diretto, senza la mediazione di quell'apparato
coercitivo ancorché razionale fino ad oggi conosciuto come Stato»
(il riferimento a Neumann è dato opportunamente nella postfazione di
Laudani).
Per Marcuse il nazismo
non è dunque l'espandersi totalitario del dominio statale a tutte le
sfere della società ma, all'inverso, è il dominio diretto di alcuni
gruppi o settori sociali (grandi industriali, partito nazista,
esercito) sulla totalità, senza più quel minimo di mediazione e
imparzialità che lo Stato e il dominio della legge comunque
garantivano. Nel nazismo insomma i grandi poteri sociali (primo fra
tutti, gli industriali) si liberano della mediazione statale per
esercitare un comando diretto e senza limiti; il partito nazista, per
un verso, è lo strumento di questo dominio terroristico; dall'altra
parte però, in quanto strumento indispensabile, pretende anch'esso
di dettare legge, in una triarchia (industriali, nazisti, esercito)
il cui punto d'equilibrio è il Fuhrer che ideologicamente appare
come la guida carismatica e il luogo della sovranità, mentre in
realtà, scrive Marcuse, non è altro che il luogo della mediazione
tra i diversi potentati.
Altrettanto nettamente
Marcuse smonta l'idea del carattere irrazionalistico della mentalità
nazista. Se è vero - sostiene Marcuse - che «il nazionalsocialismo
può essere descritto come la forma specifica tedesca di adattamento
della società ai bisogni dell'industria su larga scala», allora ci
si può spingere fino a considerarlo come «la forma specificamente
tedesca di tecnocrazia». Il fine dei poteri sociali che nel nazismo
si sono alleati è l'espansione imperialista della Germania su scala
intercontinentale, per sbaragliare la concorrenza internazionale: il
Terzo Reich è il «più efficiente e inarrestabile competitore». Ma
questo obiettivo può essere attinto solo dispiegando il massimo di
efficienza e razionalizzazione tecnica. Lungi dall'essere
irrazionale, perciò, il nazismo è la società della
razionalizzazione tecnica spinta all'estremo. Nell'organizzazione del
lavoro il nazismo si spinge infatti anche più avanti di Taylor e di
Ford.
Lo stesso discorso vale
sul piano culturale: l'irrazionalismo del mito e del neopaganesimo
non è affatto la cifra dominante per capire il nazismo. Al
contrario, esso costituisce un fattore di compensazione di quello che
invece è, secondo Marcuse, il «vero fulcro della mentalità
nazionalsocialista», il realismo illimitato, la brutalità
pragmatica. Per Marcuse, quindi, il nazismo non è né irrazionalista
né reazionario; anzi, egli ne sottolinea di continuo l'aspetto
disincantato, razionalizzante, quello per cui il nazismo è anche,
come ricorda Galli nell'introduzione, un processo di
«modernizzazione». Ma questa scelta interpretativa ha,
nell'orizzonte marcusiano, come più in generale in quello della
Scuola di Francoforte, un senso molto preciso: far capire che il
nazismo non è un monstrum circoscrivibile e isolabile nella storia
del Novecento; al contrario, diventa un esperimento di espansione,
fino agli estremi limiti, della razionalità tecnico-pragmatica. In
questo senso il nazismo non è altra cosa rispetto alle tendenze
dominanti della modernità occidentale borghese-capitalistica; è
piuttosto il punto-limite che ne svela la perversione segreta. «Lo
Stato nazionalsocialista - scrive Marcuse in uno dei passaggi più
espliciti e radicali - non è l'opposto dell'individualismo
competitivo, ma il suo compimento. Il regime libera tutte le forze
dell'egoismo brutale che i paesi democratici hanno cercato di
contenere e di combinare con l'interesse della libertà».
De te fabula narratur.
Ma ciò è vero anche sotto un altro profilo, che consente di toccare
di sfuggita anche il tema dell'antisemitismo, presente nelle
riflessioni di Marcuse in modo piuttosto implicito. Il successo di
movimenti autoritari di massa come il nazismo dipende da uno
straordinario paradosso politico: essi riescono infatti a usare, a
favore della riconferma brutale dei poteri vigenti, proprio quei
sentimenti di ostilità, risentimento e protesta che contro quei
poteri sono originariamente diretti. Così il nazismo - scrive
Marcuse - sfrutta il diffuso sentimento anticapitalistico
traducendolo in ostilità contro gli ebrei e le nazioni
«plutocratiche», e quindi volgendolo a sostegno proprio di quel
grande capitale contro cui era originariamente indirizzato.
L'ostilità per il debole, il diverso, l'outsider, su cui
l'antisemitismo si innesta, si radica nell'angoscia e nella
frustrazione sociale che il capitalismo competitivo riproduce
incessantemente, e in modo tanto più drammatico nelle fasi di crisi.
Perciò, anche da questo punto di vista, il nazismo non è un'altra
storia; e questo è in sostanza quanto ci insegna ancora il pensiero
critico di Marcuse, con la sua polemica intransigente contro le
visioni consolatorie e autorassicuranti.
“alias il manifesto”
- 15 settembre 2001
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