25.5.15

I gomitoli di Jorge Luis Borges (Italo Calvino)

La fortuna di Jorge Luis Borges in Italia ha una storia ormai trentennale: comincia infatti nel 1955, data della prima traduzione di Ficciones, sotto il titolo La biblioteca di Babele, nelle edizioni Einaudi, e culmina oggi con l' edizione completa delle opere nei "Meridiani" Mondadori, di cui vede la luce proprio in questi giorni il primo volume, a cura d'un fedelissimo amico come Domenico Porzio. Alla fortuna editoriale s'è accompagnata una fortuna letteraria che ne è allo stesso tempo causa ed effetto. Penso ai tributi d'ammirazione da parte di scrittori italiani anche i più lontani da lui come poetica, penso agli approfonditi approcci a una definizione critica del suo mondo, e penso anche e sopratutto all'influenza che egli ha avuto sulla creazione letteraria italiana, sul gusto e sull'idea stessa di letteratura: possiamo dire che molti di coloro che hanno scritto in questi ultimi vent'anni, a partire dagli appartenenti alla mia generazione, ne sono stati profondamente marcati.
Cosa ha determinato quest'incontro tra la nostra cultura e un'opera che racchiude in sè un insieme di eredità letterarie e filosofiche, in parte familiari a noi, in parte insolite, e le traduce in una chiave che certamente era quanto mai lontana dalle nostre? (Parlo d'una lontananza d'allora, rispetto ai sentieri battuti dalla cultura italiana negli anni Cinquanta). Posso solo rispondere facendo appello alla mia memoria, cercando di ricostruire quello che ha significato per me l'esperienza Borges dall'inizio a oggi. Esperienza che ha per punto di partenza e per fulcro due libri, Finzioni e L'Aleph, cioè quel particolare genere letterario che è il racconto borgesiano, per poi passare al Borges saggista, non sempre ben separabile dal narratore, e al Borges poeta, che contiene spesso nuclei di racconto e in ogni caso un nucleo di pensiero, un disegno d'idee. Comincerò col motivo d'adesione più generale, cioè l'aver riconosciuto in Borges un'idea di letteratura come mondo costruito e governato dall'intelletto. E' questa un'idea controcorrente rispetto al corso principale della letteratura mondiale del nostro secolo, che tende invece nel senso opposto, cioè vuol darci l'equivalente del coacervo magmatico dell'esistenza, nel linguaggio, nel tessuto degli eventi, nell'esplorazione dell'inconscio. Ma c'è pure una tendenza della letteratura del nostro secolo, certamente minoritaria, che ha avuto il suo sostenitore più illustre in Paul Valèry - e penso sopratutto al Valèry prosatore e pensatore - che punta su una rivincita dell'ordine mentale sul caos del mondo.
Potrei cercare di rintracciare i segni d' una vocazione italiana in questa direzione, dal Duecento al Rinascimento al Seicento al Novecento, per spiegare come scoprire Borges sia stato per noi veder realizzata una potenzialità vagheggiata da sempre: veder prendere forma un mondo a immagine e somiglianza degli spazi dell'intelletto, abitato da uno zodiaco di segni che rispondono a una geometria implacabile. Ma forse per spiegare l'adesione che un autore suscita in ciascuno di noi, piuttosto che da grandi classificazioni categoriali bisogna partire da ragioni più precisamente connesse con l'arte dello scrivere. Tra queste metterò per prima l'economia dell'espressione: Borges è un maestro dello scrivere breve. Egli riesce a condensare in testi sempre di pochissime pagine una quantità d'informazione enorme; e per informazione intendo fatti narrati o impliciti, suggestioni poetiche, e sopratutto idee. Come questa densità si realizzi senza la minima congestione, nel periodare più cristallino e sobrio e arioso; come il raccontare sinteticamente e di scorcio non porti mai a una scrittura da riassunto, anonima e puramente denotativa, ma a un linguaggio tutto precisione e concretezza, la cui inventiva si manifesta nella varietà dei ritmi, delle movenze sintattiche, degli aggettivi sempre inaspettati e sorprendenti, questo è il miracolo stilistico, senza uguali nella lingua spagnola, di cui solo Borges ha il segreto.
Non tenterò qui di formulare una poetica dello scrivere breve, vantandone l'eccellenza sullo scrivere lungo, contrapponendo i due ordini mentali che l'inclinazione verso l'uno o verso l'altro presuppone, per temperamento, per idea della forma, per sostanza dei contenuti. Mi limiterò a dire che la vera vocazione della letteratura italiana, come quella che custodisce i suoi valori nel verso o nella frase in cui ogni parola è insostituibile, si riconosce più nello scrivere breve che nello scrivere lungo. Per scrivere breve, l'invenzione fondamentale di Borges, che fu anche l'invenzione di se stesso come narratore, l'uovo di Colombo che gli permise di superare il blocco che gli impediva, fin verso i quarant'anni, di passare dalla prosa saggistica alla prosa narrativa, è stato di fingere che il libro che voleva scrivere fosse già scritto, scritto da un altro, da un ipotetico autore sconosciuto, un autore d'un'altra lingua, d'un'altra cultura, e descrivere, riassumere, recensire questo libro ipotetico.
Fa parte della leggenda di Borges l'aneddoto che il primo straordinario racconto scritto con questa formula, L'avvicinamento ad Almotasim, quando apparve sulla rivista “Sur”, fu creduto davvero una recensione a un libro d' autore indiano. Così come fa parte dei luoghi obbligati della critica su Borges osservare che ogni suo testo raddoppia o moltiplica il proprio spazio attraverso altri libri d'una biblioteca immaginaria o reale, letture classiche o erudite o semplicemente inventate. Ciò che più m' interessa qui annotare è che nasce con Borges una letteratura elevata al quadrato e nello stesso tempo una letteratura come estrazione della radice quadrata di se stessa: una "letteratura potenziale", per usare un termine che sarà sviluppato più tardi in Francia, ma i cui preannunci possono essere trovati in Ficciones, negli spunti e formule di quelle che avrebbero potuto essere le opere d'un ipotetico Herbert Quain.
Che per Borges solo la parola scritta abbia piena realtà ontologica e che le cose del mondo esistano per lui solo in quanto rimandano a cose scritte, è stato detto molte volte; ciò che io voglio sottolineare qui, è il circuito di valori che caratterizza questo rapporto tra mondo della letteratura e mondo dell'esperienza. Il vissuto è valorizzato da quanto esso ispirerà nella letteratura o da quanto a sua volta ripete da archetipi letterari: per esempio tra un'impresa eroica o temeraria in un poema epico e un'impresa analoga vissuta nella storia antica o contemporanea c'è uno scambio che porta a identificare o comparare episodi e valori del tempo scritto e del tempo reale. In questo quadro si situa il problema morale, sempre presente in Borges come un nucleo solido nella fluidità e intercambiabilità degli scenari metafisici. Per questo scettico che sembra degustare equanimemente filosofie e teologie solo per il loro valore spettacolare ed estetico, il problema morale si ripresenta tal quale da un universo all'altro nelle sue alternative elementari di coraggio e di viltà, di violenza provocata o subìta.
Nella prospettiva borgesiana priva di spessore psicologico, il problema morale affiora semplificato quasi nei termini d'un teorema geometrico, in cui i destini individuali formano un disegno generale che spetta a ciascuno riconoscere prima ancora che scegliere. Ma è nel rapido tempo della vita reale, non nel tempo fluttuante del sogno, non nel tempo ciclico o eterno del mito, che le sorti si decidono. E qui va ricordato che dell'epos di Borges non fa parte soltanto ciò che si legge nei classici, ma anche la storia argentina, che in alcuni episodi s'identifica con la sua storia familiare, con i fatti d'arme dei suoi antenati militari nelle guerre della giovane nazione.
Nel Poema conjectural, Borges immagina dantescamente i pensieri d'un suo antenato per linea materna, Francisco Laprida, mentre giace in un pantano, ferito dopo una battaglia, braccato dai gauchos del tiranno Rosas, e riconosce il proprio destino nella morte di Buonconte da Montefeltro così come la ricorda Dante nel Canto V del Purgatorio. Ha osservato Roberto Paoli, in una puntuale analisi di questa poesia, che Borges attinge, più ancora che all'episodio di Buonconte esplicitamente citato, a un episodio contiguo dello stesso Canto V del Purgatorio, quello di Jacopo del Cassero. L'osmosi tra fatti scritti e fatti reali non potrebbe avere una migliore esemplificazione: il modello ideale non è un evento mitico anteriore all'espressione verbale, bensì il testo come tessuto di parole e immagini e significati, composizione di motivi che si rispondono, spazio musicale in cui un tema sviluppa le sue variazioni.
C'è una poesia ancora più significativa per definire questa continuità borgesiana tra avvenimenti storici, epos, trasfigurazione poetica, fortuna dei motivi poetici, e loro influenza sull'immaginario collettivo. Ed è anche questa una poesia che ci tocca da vicino perché vi si parla dell'altro poema italiano che Borges ha frequentato intensamente, quello di Ariosto. La poesia s'intitola Ariosto e gli arabi. Borges vi passa in rassegna l'epos carolingio e quello bretone che confluiscono nel poema d'Ariosto, il quale trasvola su questi motivi della tradizione in sella all'Ippogrifo, cioè ne dà una trasfigurazione fantastica, allo stesso tempo ironica e piena di pathos. La fortuna dell'Orlando furioso tramanda i sogni delle leggende eroiche medievali alla cultura europea (Borges cita Milton come lettore d' Ariosto), fino al momento in cui quelli che erano stati i sogni degli eserciti avversi a Carlo Magno, cioè del mondo arabo, non prendono il sopravvento: Le mille e una notte conquistano i lettori europei prendendo il posto che l'Orlando furioso aveva nell' immaginario collettivo. C'è dunque una guerra tra i mondi fantastici d'Occidente e Oriente che prolunga la guerra storica tra Carlo Magno e i Saraceni, ed è là che l'Oriente trova la sua rivincita.
Il potere della parola scritta si collega dunque al vissuto come origine e come fine. Come origine perché diventa l'equivalente d'un avvenimento che altrimenti sarebbe come non avvenuto; come fine perché per Borges la parola scritta che conta è quella che ha un forte impatto sull'immaginazione, come figura emblematica o concettuale, fatta per essere ricordata e riconosciuta in qualsiasi sua apparizione passata o futura.
Questi nuclei mitici o archetipi, che probabilmente possono essere ricondotti a un numero finito, si staccano sullo sfondo smisurato dei temi metafisici più cari a Borges. In ogni suo testo, per ogni via, Borges viene a parlare dell'infinito, dell'innumerabile, del tempo, dell' eternità o della compresenza o ciclicità dei tempi. E qui mi ricollego a quanto dicevo prima sulla massima concentrazione di significati nella brevità dei suoi testi. Prendiamo un esempio classico dell'arte borgesiana: il racconto suo più famoso, Il giardino dei sentieri che si biforcano. L' intreccio patente è quello d'un racconto di spionaggio convenzionale, un intreccio avventuroso condensato in una dozzina di pagine e un po' tirato per i capelli per arrivare a un finale a sorpresa. (L'epos che Borges utilizza comprende anche le forme della narrativa popolare). Questo racconto di spionaggio include un altro racconto, in cui il suspense è di tipo logico-metafisico e l'ambiente è cinese: si tratta della ricerca d'un labirinto. In questo racconto è inclusa a sua volta la descrizione d'uno sterminato romanzo cinese. Ma ciò che più conta di questo composito gomitolo narrativo è la meditazione filosofica sul tempo che vi si svolge, anzi le definizioni delle concezioni del tempo che vi vengono successivamente enunciate. Ci si accorge alla fine che, sotto la apparenza d'un "thriller", è un saggio sull'idea del tempo quello che abbiamo letto. Le ipotesi sul tempo che vengono proposte, ognuna contenuta (e quasi nascosta) in poche righe, sono: un'idea di tempo puntuale, quale un assoluto presente soggettivo ("... riflettei che ogni cosa, a ognuno, accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell'aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me..."); poi un'idea di tempo determinato dalla volontà, in cui il futuro si presenti irrevocabile come il passato; e infine l'idea centrale del racconto: un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri, in modo da formare "una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli". Questa idea d'infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengano realizzate in tutte le combinazioni possibili non è una digressione del racconto, ma la condizione stessa perché il protagonista si senta autorizzato a compiere il delitto assurdo e abominevole che la sua missione spionistica gli impone, sicuro che ciò avviene solo in uno degli universi ma non negli altri, anzi, che compiendolo qui e ora, egli e la sua vittima possano riconoscersi amici e fratelli in altri universi.
Una tale concezione del tempo plurimo è cara a Borges perché è quella che regna nella letteratura, anzi, è la condizione che rende la letteratura possibile. L'esempio che sto per fare ci riporta ancora a Dante, al volume di Borges Nueve ensayos dantescos pubblicato a Madrid due anni fa e non ancora tradotto in Italia. Esso contiene tra l'altro un saggio su Ugolino della Gherardesca, e più precisamente sul verso "Poscia, più che il dolor, poté il digiuno", e su quella che fu definita l'"inutile controversia" sul possibile cannibalismo del Conte Ugolino. Passata in rassegna l'opinione di molti dei commentatori, Borges concorda con la maggioranza di loro che il verso va inteso nel senso della morte di Ugolino per inanizione. Ma egli aggiunge: che Ugolino potesse mangiare i propri figli, Dante pur senza volere che noi lo credessimo per vero, ha ben voluto farcelo sospettare "con incertezza e tremore". E Borges elenca tutte le allusioni cannibaliche che si susseguono nel canto XXXIII dell' Inferno, a cominciare dalla visione iniziale d'Ugolino che rode il cranio dell'arcivescovo Ruggieri. Il saggio è importante per le considerazioni generali con cui si chiude. In particolare quella (che è una delle affermazioni di Borges che più coincide con il metodo strutturalista) sul testo letterario che consiste esclusivamente nella successione di parole che lo compongono, per cui "di Ugolino dobbiamo dire che è un tessuto verbale, che consiste d'una trentina di terzine". Poi quella che si collega alle idee molte volte sostenute da Borges sulla impersonalità della letteratura per arguire che "Dante non seppe di Ugolino molto di più di quello che le sue terzine ci riferiscono". E finalmente l'idea alla quale volevo arrivare, che è quella del tempo plurimo: "Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte diverse alternative, opta per una ed elimina e perde le altre; non così nell'ambiguo tempo dell'arte, che assomiglia a quello della speranza e dell'oblio. Amleto, in un tale tempo, è sano di mente ed è pazzo. Nelle tenebre della Torre della Fame, Ugolino divora e non divora le salme dei figli amati, e questa imprecisione ondeggiante, quest'incertezza è la strana materia di cui egli è fatto. Così, in due agonie possibili, lo sognò Dante, e così lo sognano le generazioni a venire".


“la Repubblica”, 16 ottobre 1984

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