La fortuna di Jorge Luis
Borges in Italia ha una storia ormai trentennale: comincia infatti
nel 1955, data della prima traduzione di Ficciones, sotto il
titolo La biblioteca di Babele, nelle edizioni Einaudi, e
culmina oggi con l' edizione completa delle opere nei "Meridiani"
Mondadori, di cui vede la luce proprio in questi giorni il primo
volume, a cura d'un fedelissimo amico come Domenico Porzio. Alla
fortuna editoriale s'è accompagnata una fortuna letteraria che ne è
allo stesso tempo causa ed effetto. Penso ai tributi d'ammirazione da
parte di scrittori italiani anche i più lontani da lui come poetica,
penso agli approfonditi approcci a una definizione critica del suo
mondo, e penso anche e sopratutto all'influenza che egli ha avuto
sulla creazione letteraria italiana, sul gusto e sull'idea stessa di
letteratura: possiamo dire che molti di coloro che hanno scritto in
questi ultimi vent'anni, a partire dagli appartenenti alla mia
generazione, ne sono stati profondamente marcati.
Cosa ha determinato
quest'incontro tra la nostra cultura e un'opera che racchiude in sè
un insieme di eredità letterarie e filosofiche, in parte familiari a
noi, in parte insolite, e le traduce in una chiave che certamente era
quanto mai lontana dalle nostre? (Parlo d'una lontananza d'allora,
rispetto ai sentieri battuti dalla cultura italiana negli anni
Cinquanta). Posso solo rispondere facendo appello alla mia memoria,
cercando di ricostruire quello che ha significato per me l'esperienza
Borges dall'inizio a oggi. Esperienza che ha per punto di partenza e
per fulcro due libri, Finzioni e L'Aleph, cioè quel
particolare genere letterario che è il racconto borgesiano, per poi
passare al Borges saggista, non sempre ben separabile dal narratore,
e al Borges poeta, che contiene spesso nuclei di racconto e in ogni
caso un nucleo di pensiero, un disegno d'idee. Comincerò col motivo
d'adesione più generale, cioè l'aver riconosciuto in Borges un'idea
di letteratura come mondo costruito e governato dall'intelletto. E'
questa un'idea controcorrente rispetto al corso principale della
letteratura mondiale del nostro secolo, che tende invece nel senso
opposto, cioè vuol darci l'equivalente del coacervo magmatico
dell'esistenza, nel linguaggio, nel tessuto degli eventi,
nell'esplorazione dell'inconscio. Ma c'è pure una tendenza della
letteratura del nostro secolo, certamente minoritaria, che ha avuto
il suo sostenitore più illustre in Paul Valèry - e penso sopratutto
al Valèry prosatore e pensatore - che punta su una rivincita
dell'ordine mentale sul caos del mondo.
Potrei cercare di
rintracciare i segni d' una vocazione italiana in questa direzione,
dal Duecento al Rinascimento al Seicento al Novecento, per spiegare
come scoprire Borges sia stato per noi veder realizzata una
potenzialità vagheggiata da sempre: veder prendere forma un mondo a
immagine e somiglianza degli spazi dell'intelletto, abitato da uno
zodiaco di segni che rispondono a una geometria implacabile. Ma forse
per spiegare l'adesione che un autore suscita in ciascuno di noi,
piuttosto che da grandi classificazioni categoriali bisogna partire
da ragioni più precisamente connesse con l'arte dello scrivere. Tra
queste metterò per prima l'economia dell'espressione: Borges è un
maestro dello scrivere breve. Egli riesce a condensare in testi
sempre di pochissime pagine una quantità d'informazione enorme; e
per informazione intendo fatti narrati o impliciti, suggestioni
poetiche, e sopratutto idee. Come questa densità si realizzi senza
la minima congestione, nel periodare più cristallino e sobrio e
arioso; come il raccontare sinteticamente e di scorcio non porti mai
a una scrittura da riassunto, anonima e puramente denotativa, ma a un
linguaggio tutto precisione e concretezza, la cui inventiva si
manifesta nella varietà dei ritmi, delle movenze sintattiche, degli
aggettivi sempre inaspettati e sorprendenti, questo è il miracolo
stilistico, senza uguali nella lingua spagnola, di cui solo Borges ha
il segreto.
Non tenterò qui di
formulare una poetica dello scrivere breve, vantandone l'eccellenza
sullo scrivere lungo, contrapponendo i due ordini mentali che
l'inclinazione verso l'uno o verso l'altro presuppone, per
temperamento, per idea della forma, per sostanza dei contenuti. Mi
limiterò a dire che la vera vocazione della letteratura italiana,
come quella che custodisce i suoi valori nel verso o nella frase in
cui ogni parola è insostituibile, si riconosce più nello scrivere
breve che nello scrivere lungo. Per scrivere breve, l'invenzione
fondamentale di Borges, che fu anche l'invenzione di se stesso come
narratore, l'uovo di Colombo che gli permise di superare il blocco
che gli impediva, fin verso i quarant'anni, di passare dalla prosa
saggistica alla prosa narrativa, è stato di fingere che il libro che
voleva scrivere fosse già scritto, scritto da un altro, da un
ipotetico autore sconosciuto, un autore d'un'altra lingua, d'un'altra
cultura, e descrivere, riassumere, recensire questo libro ipotetico.
Fa parte della leggenda
di Borges l'aneddoto che il primo straordinario racconto scritto con
questa formula, L'avvicinamento ad Almotasim, quando apparve
sulla rivista “Sur”, fu creduto davvero una recensione a un libro
d' autore indiano. Così come fa parte dei luoghi obbligati della
critica su Borges osservare che ogni suo testo raddoppia o moltiplica
il proprio spazio attraverso altri libri d'una biblioteca immaginaria
o reale, letture classiche o erudite o semplicemente inventate. Ciò
che più m' interessa qui annotare è che nasce con Borges una
letteratura elevata al quadrato e nello stesso tempo una letteratura
come estrazione della radice quadrata di se stessa: una "letteratura
potenziale", per usare un termine che sarà sviluppato più
tardi in Francia, ma i cui preannunci possono essere trovati in
Ficciones, negli spunti e formule di quelle che avrebbero
potuto essere le opere d'un ipotetico Herbert Quain.
Che per Borges solo la
parola scritta abbia piena realtà ontologica e che le cose del mondo
esistano per lui solo in quanto rimandano a cose scritte, è stato
detto molte volte; ciò che io voglio sottolineare qui, è il
circuito di valori che caratterizza questo rapporto tra mondo della
letteratura e mondo dell'esperienza. Il vissuto è valorizzato da
quanto esso ispirerà nella letteratura o da quanto a sua volta
ripete da archetipi letterari: per esempio tra un'impresa eroica o
temeraria in un poema epico e un'impresa analoga vissuta nella storia
antica o contemporanea c'è uno scambio che porta a identificare o
comparare episodi e valori del tempo scritto e del tempo reale. In
questo quadro si situa il problema morale, sempre presente in Borges
come un nucleo solido nella fluidità e intercambiabilità degli
scenari metafisici. Per questo scettico che sembra degustare
equanimemente filosofie e teologie solo per il loro valore
spettacolare ed estetico, il problema morale si ripresenta tal quale
da un universo all'altro nelle sue alternative elementari di coraggio
e di viltà, di violenza provocata o subìta.
Nella prospettiva
borgesiana priva di spessore psicologico, il problema morale affiora
semplificato quasi nei termini d'un teorema geometrico, in cui i
destini individuali formano un disegno generale che spetta a ciascuno
riconoscere prima ancora che scegliere. Ma è nel rapido tempo della
vita reale, non nel tempo fluttuante del sogno, non nel tempo ciclico
o eterno del mito, che le sorti si decidono. E qui va ricordato che
dell'epos di Borges non fa parte soltanto ciò che si legge nei
classici, ma anche la storia argentina, che in alcuni episodi
s'identifica con la sua storia familiare, con i fatti d'arme dei suoi
antenati militari nelle guerre della giovane nazione.
Nel Poema conjectural,
Borges immagina dantescamente i pensieri d'un suo antenato per linea
materna, Francisco Laprida, mentre giace in un pantano, ferito dopo
una battaglia, braccato dai gauchos del tiranno Rosas, e
riconosce il proprio destino nella morte di Buonconte da Montefeltro
così come la ricorda Dante nel Canto V del Purgatorio. Ha
osservato Roberto Paoli, in una puntuale analisi di questa poesia,
che Borges attinge, più ancora che all'episodio di Buonconte
esplicitamente citato, a un episodio contiguo dello stesso Canto V
del Purgatorio, quello di Jacopo del Cassero. L'osmosi tra fatti
scritti e fatti reali non potrebbe avere una migliore
esemplificazione: il modello ideale non è un evento mitico anteriore
all'espressione verbale, bensì il testo come tessuto di parole e
immagini e significati, composizione di motivi che si rispondono,
spazio musicale in cui un tema sviluppa le sue variazioni.
C'è una poesia ancora
più significativa per definire questa continuità borgesiana tra
avvenimenti storici, epos, trasfigurazione poetica, fortuna dei
motivi poetici, e loro influenza sull'immaginario collettivo. Ed è
anche questa una poesia che ci tocca da vicino perché vi si parla
dell'altro poema italiano che Borges ha frequentato intensamente,
quello di Ariosto. La poesia s'intitola Ariosto e gli arabi.
Borges vi passa in rassegna l'epos carolingio e quello bretone che
confluiscono nel poema d'Ariosto, il quale trasvola su questi motivi
della tradizione in sella all'Ippogrifo, cioè ne dà una
trasfigurazione fantastica, allo stesso tempo ironica e piena di
pathos. La fortuna dell'Orlando furioso tramanda i sogni delle
leggende eroiche medievali alla cultura europea (Borges cita Milton
come lettore d' Ariosto), fino al momento in cui quelli che erano
stati i sogni degli eserciti avversi a Carlo Magno, cioè del mondo
arabo, non prendono il sopravvento: Le mille e una notte
conquistano i lettori europei prendendo il posto che l'Orlando
furioso aveva nell' immaginario collettivo. C'è dunque una
guerra tra i mondi fantastici d'Occidente e Oriente che prolunga la
guerra storica tra Carlo Magno e i Saraceni, ed è là che l'Oriente
trova la sua rivincita.
Il potere della parola
scritta si collega dunque al vissuto come origine e come fine. Come
origine perché diventa l'equivalente d'un avvenimento che altrimenti
sarebbe come non avvenuto; come fine perché per Borges la parola
scritta che conta è quella che ha un forte impatto
sull'immaginazione, come figura emblematica o concettuale, fatta per
essere ricordata e riconosciuta in qualsiasi sua apparizione passata
o futura.
Questi nuclei mitici o
archetipi, che probabilmente possono essere ricondotti a un numero
finito, si staccano sullo sfondo smisurato dei temi metafisici più
cari a Borges. In ogni suo testo, per ogni via, Borges viene a
parlare dell'infinito, dell'innumerabile, del tempo, dell' eternità
o della compresenza o ciclicità dei tempi. E qui mi ricollego a
quanto dicevo prima sulla massima concentrazione di significati nella
brevità dei suoi testi. Prendiamo un esempio classico dell'arte
borgesiana: il racconto suo più famoso, Il giardino dei sentieri
che si biforcano. L' intreccio patente è quello d'un racconto di
spionaggio convenzionale, un intreccio avventuroso condensato in una
dozzina di pagine e un po' tirato per i capelli per arrivare a un
finale a sorpresa. (L'epos che Borges utilizza comprende anche le
forme della narrativa popolare). Questo racconto di spionaggio
include un altro racconto, in cui il suspense è di tipo
logico-metafisico e l'ambiente è cinese: si tratta della ricerca
d'un labirinto. In questo racconto è inclusa a sua volta la
descrizione d'uno sterminato romanzo cinese. Ma ciò che più conta
di questo composito gomitolo narrativo è la meditazione filosofica
sul tempo che vi si svolge, anzi le definizioni delle concezioni del
tempo che vi vengono successivamente enunciate. Ci si accorge alla
fine che, sotto la apparenza d'un "thriller", è un saggio
sull'idea del tempo quello che abbiamo letto. Le ipotesi sul tempo
che vengono proposte, ognuna contenuta (e quasi nascosta) in poche
righe, sono: un'idea di tempo puntuale, quale un assoluto presente
soggettivo ("... riflettei che ogni cosa, a ognuno, accade
precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente
accadono i fatti; innumerevoli uomini nell'aria, sulla terra e sul
mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me..."); poi
un'idea di tempo determinato dalla volontà, in cui il futuro si
presenti irrevocabile come il passato; e infine l'idea centrale del
racconto: un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si
biforca in due futuri, in modo da formare "una rete crescente e
vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli".
Questa idea d'infiniti universi contemporanei in cui tutte le
possibilità vengano realizzate in tutte le combinazioni possibili
non è una digressione del racconto, ma la condizione stessa perché
il protagonista si senta autorizzato a compiere il delitto assurdo e
abominevole che la sua missione spionistica gli impone, sicuro che
ciò avviene solo in uno degli universi ma non negli altri, anzi, che
compiendolo qui e ora, egli e la sua vittima possano riconoscersi
amici e fratelli in altri universi.
Una tale concezione del
tempo plurimo è cara a Borges perché è quella che regna nella
letteratura, anzi, è la condizione che rende la letteratura
possibile. L'esempio che sto per fare ci riporta ancora a Dante, al
volume di Borges Nueve ensayos dantescos pubblicato a Madrid
due anni fa e non ancora tradotto in Italia. Esso contiene tra
l'altro un saggio su Ugolino della Gherardesca, e più precisamente
sul verso "Poscia, più che il dolor, poté il digiuno", e
su quella che fu definita l'"inutile controversia" sul
possibile cannibalismo del Conte Ugolino. Passata in rassegna
l'opinione di molti dei commentatori, Borges concorda con la
maggioranza di loro che il verso va inteso nel senso della morte di
Ugolino per inanizione. Ma egli aggiunge: che Ugolino potesse
mangiare i propri figli, Dante pur senza volere che noi lo credessimo
per vero, ha ben voluto farcelo sospettare "con incertezza e
tremore". E Borges elenca tutte le allusioni cannibaliche che si
susseguono nel canto XXXIII dell' Inferno, a cominciare dalla visione
iniziale d'Ugolino che rode il cranio dell'arcivescovo Ruggieri. Il
saggio è importante per le considerazioni generali con cui si
chiude. In particolare quella (che è una delle affermazioni di
Borges che più coincide con il metodo strutturalista) sul testo
letterario che consiste esclusivamente nella successione di parole
che lo compongono, per cui "di Ugolino dobbiamo dire che è un
tessuto verbale, che consiste d'una trentina di terzine". Poi
quella che si collega alle idee molte volte sostenute da Borges sulla
impersonalità della letteratura per arguire che "Dante non
seppe di Ugolino molto di più di quello che le sue terzine ci
riferiscono". E finalmente l'idea alla quale volevo arrivare,
che è quella del tempo plurimo: "Nel tempo reale, nella storia,
ogni volta che un uomo si trova di fronte diverse alternative, opta
per una ed elimina e perde le altre; non così nell'ambiguo tempo
dell'arte, che assomiglia a quello della speranza e dell'oblio.
Amleto, in un tale tempo, è sano di mente ed è pazzo. Nelle tenebre
della Torre della Fame, Ugolino divora e non divora le salme dei
figli amati, e questa imprecisione ondeggiante, quest'incertezza è
la strana materia di cui egli è fatto. Così, in due agonie
possibili, lo sognò Dante, e così lo sognano le generazioni a
venire".
“la Repubblica”, 16
ottobre 1984
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