Franco e Ruth Fortini |
Quando, ormai più di
venti anni fa, sono arrivato a Siena per studiare all’università,
Franco Fortini era morto da poco. Negli anni Ottanta, terminato il
suo incarico di docenza, Fortini tornava ogni anno nella città
toscana almeno per un seminario. Pur non avendolo mai incrociato di
persona, la sua immagine mi è subito diventata familiare perché in
certo modo gli passavo davanti ogni giorno, entrando nei locali della
biblioteca di Lettere nei pressi di Porta Romana: qua risiede infatti
l’archivio Fortini e una gigantografia del poeta presiede l’entrata
della biblioteca. Quella foto è ancora lì, nonostante negli anni si
siano succedute le voci di un possibile spostamento della biblioteca
di Lettere in locali più angusti. Resiste la biblioteca, resistono
la fotografia di Fortini, l’archivio Franco Fortini e Luca Lenzini,
che è il direttore della biblioteca e dell’archivio e il curatore
dell’opera poetica fortiniana, appena raccolta in un paperback di
858 pagine dalla Mondadori (Tutte le poesie 1935 – 1994).
Colgo così l’occasione
per porre alcune domande a Luca Lenzini.
Prunetti - Vorrei partire
dall’operaismo di Fortini. Siena è stata un luogo importante per
una certa visione critica e militante del marxismo. A Siena
insegnavano importanti critici marxisti, c’erano alcuni dei
redattori di Officina, aveva un incarico di docenza Mario Tronti.
Fuori da Siena, Fortini è stato coinvolto in altre frequentazioni
operaiste, come il rapporto con Panzieri e i «Quaderni rossi». Ti
chiederei allora di provare a collegare Fortini, nella vita o
nell’opera, come preferisci tu, a due realtà spesso non
coincidenti tra loro: gli intellettuali operaisti, che spesso erano
persone in carne e ossa, frequentati da Fortini, e gli operai, che
troviamo talvolta rappresentati in alcune sue poesie, e che lui
probabilmente frequentò nell’esperienza aziendale di Ivrea. E qui
penso ai versi di A un’operaia
milanese, alla poesia L’officina,
o al Sonetto dei sette cinesi,
che però sta ne L’ospite
ingrato. Insomma, Luca, ti chiederei in primo luogo di
parlarci dei rapporti di Fortini con gli operai e gli operaisti.
Lenzini - Per
rispondere a questa domanda, mi sembra vada messo in evidenza, prima,
il fatto che quando Fortini si forma, l’orizzonte della “lotta di
classe”, quale si definisce nella tradizione marxista e nei partiti
che ad essa si richiamavano, in sostanza era estraneo alla sua
cultura. Gli anni fiorentini, anche quelli dell’università,
nonostante l’antifascismo che gli derivava dal padre e dal contesto
delle frequentazioni, erano segnati piuttosto da idealismo e
spiritualismo; lui stesso ha parlato persino di estetismo. È quando
affronta il servizio militare e poi la guerra, l’esilio in Svizzera
e il breve periodo con i partigiani dell’Ossola, che per Fortini
cambia la prospettiva. Dunque l’importanza della classe operaia nel
quadro di una prospettiva rivoluzionaria è una conquista,
un’acquisizione che passa sì attraverso letture di capitale
importanza (quelle, in primo luogo, compiute in Svizzera tra il ’43
e il ’45), ma anche attraverso il vissuto, cioè attraverso
l’incontro con i ceti popolari, con i profughi d’Europa,
nell’esercito, nelle città devastate dalla guerra, e
nell’esperienza della Liberazione dal Fascismo, ovvero dentro un
reale processo di emancipazione. Questa premessa da una parte vale
per segnare la distanza di Fortini dall’elemento “dottrinario”,
da una visione precostituita, che invece ha caratterizzato un ampio
ambito della sinistra, ma anche per sottolineare che proprio in
quanto inerente al percorso esistenziale, tale acquisizione segna un
discrimine nella storia di Fortini intellettuale e scrittore. Di qui
anche il significato, il “peso specifico” delle poesie che tu
citi.
L’incontro con Panzieri
e gli intellettuali che gravitavano intorno a «Quaderni rossi»
appartiene ad una fase di molto successiva a quella appena delineata
(cioè il periodo della guerra e della Liberazione). Esaurita la fase
del “Politecnico”, finiti i “dieci inverni” del dopoguerra,
dopo l’Ungheria, Fortini ha lasciato il Partito Socialista e cerca
interlocutori tra i più giovani, sganciati dagli ambienti
intellettuali della sinistra ufficiale e della “società
letteraria”. L’importanza di Panzieri per Fortini, al di là dei
dissensi e delle diverse posizioni su questo o quell’aspetto della
società del tempo, è espressa a chiare lettere nella prosa in morte
dell’Ospite ingrato e nelle poesie di Questo muro e
Paesaggio con serpente; si tratta di una figura decisiva (di
anticipatore, di apertura al futuro) in quanto lo stesso Panzieri si
muoveva, con straordinaria lucidità, fuori dalle formazioni
politiche tradizionali, sia sindacali sia partitiche, in una
prospettiva che poneva i più raffinati strumenti della cultura
critica al servizio dell’analisi diretta del lavoro nel mondo del
neocapitalismo, in un tornante storico decisivo (oggi si vede anche
meglio). Del gruppo allora attivo e in generale per quegli anni,
oltre a Panzieri, la personalità più prossima a Fortini fu in primo
luogo Edoarda Masi, e poi Sergio Bologna; non direi altrettanto per
Mario Tronti o Asor Rosa. Ma ripeto, quel che conta di quel momento è
la prospettiva “dal basso”, a contatto con i fenomeni in atto
nella società, quale fu propria dell’esperienza di «Quaderni
Rossi», e che in qualche modo si ricollega sul piano storico
all’esperienza dei “consigli” e a Brecht, anticipando temi e
nodi critici poi assunti dal Sessantotto (per intendersi). Di queste
esperienze, è vero, nella Facoltà di Lettere di Siena c’era una
traccia precisa, e soprattutto un modo di vivere la cultura che
adesso è impensabile, a dir poco.
Ma a questa sintesi
molto brutale e parziale, aggiungerei due punti su cui riflettere.
Se la centralità della
classe operaia è un dato incontestabile nel quadro culturale ora
accennato, bisogna altresì rammentare un passaggio di Verifica dei
poteri in cui Fortini osserva: «… se il proletariato industriale è
stato, per una età, la coscienza del mondo, non è certo debba
esserlo necessariamente oggi, né che lo siano altri ceti o classi,
fuor di quella classe che tuttavia si definisce dal grado di diniego
di essenza cui le altri classi la sottopongono.» (corsivo del
testo). Sono parole scritte nel 1963 e dicono molto, mi sembra, di
quale sia stato l’atteggiamento di Fortini al riguardo; e dicono
anche quanto egli possa essere, ancora oggi, una voce indispensabile
per il nostro presente.
L’altra osservazione è
di diverso ordine e di tipo, se vuoi, aneddotico. Ha raccontato una
volta Goffredo Fofi che uno dei compagni di «Quaderni Rossi», non
ricordo ora quale, chiese un giorno a Panzieri, con qualche
insofferenza, perché desse tanto ascolto a Fortini, che era in fin
dei conti un poeta. Panzieri allora prese tra i suoi libri la Vita
di Marx di Franz Mehring, e lesse il passaggio in cui si parla
dei rapporti tra Marx e Heine. Si tratta del capitolo sull’Esilio
a Parigi e vi si dice come per Marx i poeti non potessero essere
misurati «con la misura degli uomini comuni e anche non comuni», e
inoltre che egli vedeva in Heine non solo il poeta «ma anche il
lottatore» e uno spirito libero, per questo capace di intendere i
«più profondi nessi della vita storica». Non saprei dirti per
quali poeti di oggi vadano bene queste parole, ma per Fortini davvero
non avrei dubbi. E Panzieri aveva ben visto.
Prunetti - L’altro punto che ti
chiederei di affrontare brevemente, anche se merita pagine e pagine,
è quella del lavoro di Fortini come traduttore. Quella di Fortini
non è certo la traduzione del traduttore condannato
all’invisibilità, è una traduzione d’autore. In certo modo è
anche una posizione privilegiata, perché Fortini si può permettere
di diventare interprete senza paura di incrociare la bacchetta o la
penna blu di una “segretarietta secca” bianciardiana o di un
moderno editor. Oppure forse anche lui ha avuto delle grane, come
traduttore, nella macchina editoriale? Altro punto eccezionale
secondo me è scrivere sull’impalcatura di un altro autore che ti
fa ombra o ti dà luce… spesso capita di leggere un autore che
diventa così importante da spostarti quasi sul suo spartito
musicale… E’ successo anche a Fortini, traducendo Brecht?
Lenzini - Se guardiamo all’insieme
del lavoro di Fortini traduttore, non si può non rimanere
impressionati. Contando solo le traduzioni in volume, si hanno una
cinquantina di titoli, con nomi che vanno da Flaubert a Proust, da
Eluard a Brecht, Kafka, Queneau, Goethe, Simone Weil. Si tratta cioè
di autori di primissimo piano, non solo del Novecento. Che le sue
siano poi traduzioni “d’autore”, questo è senz’altro vero;
anche se non va trascurata l’importanza che quel lavoro poteva
avere sul piano economico, per quanto limitata: i libri di saggi o le
poesie non gli assicuravano certo introiti di rilievo. Si spiegano
così certi titoli inaspettati, come per esempio Einstein. Un’altra
cosa da non dimenticare è poi l’aiuto costante che ebbe dalla
moglie Ruth Leiser, svizzera di lingua madre tedesca (ma conosceva
anche il russo), donna intelligentissima, tanto sensibile quanto
generosa, e del tutto priva di snobismi. Le versioni da Brecht
costituiscono da sole un capitolo a parte della cultura italiana
novecentesca; per non parlare del Faust di Goethe, al cui
lavoro contribuì in modo decisivo il nostro germanista più grande
(in tutti i sensi), Cesare Cases. Quindi nel suo caso non parlerei di
“segretarie” (che ci saranno anche state), ma della fattiva
presenza di Ruth, invece, e di collaborazioni di altissimo livello.
Quanto al rapporto con
alcuni degli autori citati, è certo che Brecht prima, Goethe poi (ma
in una certa fase anche Éluard) ebbero un influsso significativo
sulla sua scrittura poetica, e non solo in senso stilistico ma anche
come posizione rispetto al mondo circostante. E a partire da questa
considerazione, mi preme osservare che il lavoro del traduttore, del
critico e del poeta sono strettamente correlati tra loro: c’è un
dare e ricevere continuativo, un trapasso dalla pratica linguistica –
con l’annesso uso della memoria poetica, in Fortini straordinaria –
alla riflessione critica, dalla dimensione sperimentale a quella
teorica. Ora, non solo alcuni saggi dedicati al tema della traduzione
poetica ebbero una funzione innovativa molto importante nel quadro
della critica, ma la sua attenzione ai poeti-traduttori all’interno
della produzione novecentesca ha aperto la strada a tutto un “genere”
di studi, oggi persino inflazionato ma all’epoca trattato in modo
marginale o molto settoriale. Ebbene, se non si ha presente questo
scambio fecondissimo, radicato in una cultura dialogante e di
apertura a tutto campo, s’intende poco o nulla di Fortini
traduttore e dello specialissimo ruolo che la traduzione ha nella sua
opera.
Prunetti - Infine, dato che
immagino tu abbia frequentato Fortini nei suoi anni di docenza a
Siena, vorrei chiederti di parlare dei luoghi fortiniani a Siena.
Siena è una città che assomiglia a un labirinto a forma di y: per
muoversi a Siena bisogna continuamente darsi dei punti di ancoraggio,
la logica del cardo e del decumano qui non funziona. I miei luoghi a
lungo sono stati quelli di Pantaneto e via Roma, il giardino di
Lettere, la trattoria dello Gnudo ai Pispini, e poi l’ospedale
delle Scotte, per ragioni belle e brutte. Potrei fissare altre
coordinate, ovviamente, ma qui non si parla di me: il mio è solo un
esempio illustrativo per chiederti quali sono, a tua memoria, i
luoghi fortiniani di Siena. I luoghi dove lui abitava, passeggiava,
lavorava, scriveva, leggeva…
Lenzini - Fortini e Siena: è un
tema che è stato ben trattato da un caro amico senese di Fortini,
Carlo Fini, in uno scritto apparso su «Trasparenze», la rivista di
Giorgio Devoto, nel 2000, tema di recente ripreso da Valentina
Tinacci in una monografia su Fortini docente. Del resto lui stesso,
in una lezione magistrale tenuta nel 1989 in quella che al tempo si
chiamava “Scuola di lingua e cultura italiana per stranieri”,
ebbe a parlare del proprio rapporto con la città, dandone un
ritratto molto personale, ricco di notazioni storiche e non solo
storiche. Certo Siena non è più la stessa, rispetto a quella
conosciuta e descritta da Fortini, per esempio quando parlava del
«rappresentante di farmaceutici all’ultimo piano dell’albergo
Toscana, l’ultimo spettatore di cineclub di ritorno a casa
picchiando i tacchi sul selciato e l’oste bisunto sull’ultimo
conto della sua giornata tra fiaschi e salumi», i quali «possono
credere davvero di sentir passare in aria, volanti, i diavoli che
sulle tavole della Pinacoteca straziano i santi e duellano con gli
angeli.» Ma credo molto abbia contato, per lui, una prima scoperta
di Siena fatta in gioventù, quando girava per chiese e musei al
tempo in cui era studente, alla cerca dei pittori amati e studiati.
C’è una prosa molto bella pubblicata nel ’45 in cui descrive
quell’esperienza, legata a un amore giovanile – mi viene da
citare in materia un poeta che Fortini ebbe caro, Sereni, quando
scrive (di Barcellona): «solo un amore che si fosse acceso in noi da
quelle parti ci avrebbe immessi con tanta forza dentro una città e
ne avrebbe dilatato i contorni»… – , con una Piazza del Mercato
piena di buoi e cavalli e la città invernale «spolpata come una
reliquia dal freddo e dal tramontano.»
Parlando dei luoghi,
bisognerebbe dire – oltre al già citato albergo Toscana –
soprattutto di Fieravecchia, che tu giustamente rammenti. Ma qui il
discorso sarebbe lungo e temo di scivolare troppo
nell’autobiografico, per cui oltre a rinviare ai lavori di Fini e
Tinacci mi limiterò a ricordare un passo dell’intervista di Paolo
Jachia (Leggere e scrivere, 1993) in cui Fortini parla dei
«seminari senesi, in certe serate di gran silenzio, la campagna nera
oltre le vetrate della facoltà, tra gli studenti, ragionando insieme
sui nessi sottili di un’ottava o di un inno, l’improvviso
luccichío di fosforo sulla pagina, che annulla secoli e fa sorridere
la cerchia degli attenti.»
Importanti furono anche i
soggiorni alla Certosa di Maggiano: c’è un paesaggio con Siena
sullo sfondo, disegnato da quei luoghi, che ha un corrispettivo in un
brano di Ricordo di Firenze (1982), in Insistenze
(«Dalla mia finestra senese vedo un orto fratino ben zappettato, un
muretto di cotto che pare cinese, colombe e tortore tra nespolo,
pesco e limone. Poi un largo pendio di vigna netta e di ulivi, sul
crinale della poggiata le case in fila, e più oltre lo stendardo
delle mura, da Porta Romana a Porta Pispini.») – e quanto a
trattorie, naturalmente Le Logge, per gli ultimi anni: c’è
al riguardo un sonetto divertito e divertente, dedicato a Gianni
Brunelli, la cui prima strofa recita: «Figlio della città che fu
del giglio / e vecchio ormai lombardo – voce e vena / cercai
quaggiù, gli anni fuggendo, Siena / tu, stretta noce, tartuca,
gheriglio…» Per il resto, credo che – come documentano anche
foto e carte dell’archivio – quanto a “coordinate”, un luogo
essenziale delle permanenze fortiniane a Siena, ricco di stimoli
intellettuali e fecondo anche sul piano editoriale, fu proprio la
casa di Carlo Fini in via della Galluzza, dove insieme a Maria Luisa
Meoni , ad Attilio Lolini e sua moglie Loredana Montomoli, Romano
Luperini e tanti altri amici e colleghi Fortini poteva non solo
improvvisare versi e imitazioni, ma progettare libri e trovare
solidarietà e conforto nei suoi «inverni di guarnigione», quegli
inverni che per tanti suoi studenti e amici furono un momento
decisivo della propria esistenza, in quella forse troppo «stretta
noce» ma che allora sapeva almeno guardare oltre se stessa.
Da “Carmilla” (
http://www.carmillaonline.com/ ) 7/1/2015
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