Riprendo dal “manifesto”
un articolo pubblicato in occasione del centenario di Feuerbach, nel
2004, giacché mi pare contenere solide motivazioni per una
(ri)lettura. (S.L.L.)
Nella nostra età
secolarizzata conviene dedicare almeno un ricordo a Ludwig Feuerbach,
approfittando del bicentenario della nascita, caduto alla fine della
scorsa settimana.
La sua critica alla
religione, e all'essenza del cristianesimo, segna una svolta nel
pensiero filosofico, dischiudendo quella prospettiva nella quale -
come osservava Karl Lowith già nel 1941 - tutti noi, consapevoli o
no, ci troviamo. Il nostro sguardo disincantato all'aldilà e
all'oltre, l'assenza quasi scontata di fede, l'impossibilità di
credere che attraversa il mondo contemporaneo, prima ancora di
diffondersi nelle proporzioni attuali, hanno trovato espressione
chiara e decisa nella filosofia di Feuerbach. E i suoi problemi
restano i nostri: il corpo, il tu, la comunità.
In una lettera da Parigi
del 1844 Karl Marx, riconoscendone i meriti, gli scrive: «la sua
Filosofia dell'avvenire e la sua Essenza della religione,
malgrado il numero ridotto di pagine, hanno più peso di tutta
l'attuale letteratura tedesca. Non so se lo abbia fatto
intenzionalmente, ma in questi scritti lei ha dato una base
filosofica al socialismo e i comunisti hanno inteso in tal modo
questi suoi lavori». Punto di riferimento non solo per Marx, ma
anche per Stirner, per Freud, per Bloch, il fondatore dell'ateismo
moderno fa ancora discutere per le sue tesi originali e per la
radicalità con cui le difende, talvolta per noi forse ingenua, ma
non per ciò meno incisiva. Per questa radicalità Feuerbach pagò
con una carriera universitaria troncata sul nascere grazie alla
ostilità incontrata dalle sue idee sulla religione - esposte in uno
dei suoi primi scritti Pensieri sulla morte e l'immortalità
del 1830, evento che ne segnò per sempre la vita trascorsa, da
allora, ai margini, nella solitudine e nello studio, e terminata
negli ultimi anni in miseria. L'unica interruzione felice furono le
lezioni tenute all'università di Heidelberg nell'inverno del
1848-1849 su invito degli studenti. Per il resto Feuerbach scrisse
instancabile sino alla fine e l'edizione, non ancora completata,
delle sue opere conta già quasi venti volumi (ne sono previsti
ventidue in tutto).
La filosofia non è un
pensiero puro, è sempre legata e vincolata a un soggetto concreto
che non è separato e assoluto, ma - a sua volta - ha sempre di
fronte a sé un altro soggetto concreto. Perciò Feuerbach prende di
mira anzitutto l'idealismo hegeliano di cui propone un completo
rovesciamento. L'inizio della filosofia non può più essere
l'Assoluto. Tanto meno l'Assoluto di Dio. Così la svolta verso
l'uomo, la svolta antropologica che Feuerbach imprime alla filosofia,
si coniuga con una critica alla religione. Il suo ateismo non è, né
vuole essere, una semplice negazione dell'esistenza di Dio. Piuttosto
Feuerbach, sulla scia dell'illuminismo tedesco, decostruisce il
costrutto, tutto umano, dell'idea di Dio. A differenza dell'animale,
l'uomo ha coscienza della propria finitezza e dunque ha anche
coscienza dell'infinito. Ma l'infinito è quello del proprio essere,
cioè dell'essere umano. L'uomo singolo si sente limitato rispetto
all'infinità del genere umano. L'errore è fare dell'infinito umano
un infinito divino proiettando in un essere apparentemente altro e
distinto dall'uomo tutti gli attributi perfetti dell'uomo. Ecco
svelato per Feuerbach il mistero della religione. Ma ecco svelato
pure il mistero della alienazione. Perché l'uomo sposta il suo
essere fuori di sé invece di ritrovarlo in se stesso e preferisce al
proprio un mondo altro e alienato. Per superare l'alienazione
occorrerà allora restituire all'uomo gli attributi che la religione
gli ha tolto mostrando che è l'uomo ad aver creato Dio e non
viceversa.
Questa critica, divenuta
famosa anche grazie a Marx, sfocia in una filosofia che, pur nella
disillusione e nel disincanto, insiste sull'esigenza che l'uomo ha
dell'altro da sé senza cui non potrebbe neppure esistere, dato che
non a se stesso ma all'altro deve la propria vita. Il pericolo della
religione sta appunto nel sostituire con un amore fantastico,
vagheggiato nell'al di là, l'amore concreto vissuto nell'al di qua.
È così che Feuerbach fa la scoperta del «tu» che - come
suggerisce Buber - dopo il cogito cartesiano, isolato e monologico,
costituisce il nuovo inizio della filosofia. «La vera dialettica -
scrive Feuerbach - è un dialogo tra l'io e il tu».
La filosofia
dell'avvenire, la filosofia del futuro, sarà lo sviluppo di questo
dialogo in cui l'uomo è presente nella sua integralità: nella sua
ragione, ma anche nei suoi sentimenti e nelle sue passioni. L'uomo
della nuova filosofia è un essere naturale, concreto, sensibile. Non
stupisce che la parola-chiave sia qui l'amore: «tu sei solo in quel
che ami e al di fuori non sei nulla». Ed è l'amore che, soprattutto
negli ultimi anni, anche attraverso il confronto con Schopenhauer,
offre le linee per interpretare il rapporto tra corpo e anima, dunque
quello tra istinti e volontà. Come non c'è volontà senza istinti,
così non c'è anima senza corpo, e alla fine è la sensibilità
materiale del corpo il fondamento di tutto ciò che avviene
nell'anima. Resta però da chiarire allora la reciprocità di un
amore non-empirico che spinge oltre sé, che fa desiderare anche la
felicità di un altro lontano ed estraneo: resta insomma da chiarire
la questione politica ed etica della comunità per la quale l'ultimo
Feuerbach introduce, non senza difficoltà e contraddizioni, il
concetto di «coscienza» intesa come «con-scienza», sapere che si
condivide con gli altri.
“il manifesto”, 4
agosto 2004
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