Nuovi
naufragi, nuove morti di massa in mare sembrano interrogarci sulle
nostre responsabilità, sulla nostra stessa umanità. Stefania
Miccolis, in un suo denso articolo sul giornale on line
“futuroquotidiano.com”, ha cercato aiuto nella poesia, in quei
Respingimenti di Walter Cremonte, che a suo tempo non ho
esitato a definire un capolavoro.
Ripropongo
qui il “pezzo”, che, oltre a una convincente lettura dell'opera
di Cremonte, contiene stralci di una conversazione con il poeta.
(S.L.L.)
Walter Cremonte |
Cosa possiamo dire di
un naufragio/ più della stessa parola: naufragio./ Forse aggiungere:
lasciare le piane dorate/ le vie del cielo e le care stelle/ l’olivo,
il fico, il mandorlo, il limone/ tutto confuso e perduto in un
vortice/ d’acqua e di terra. Moltiplica questo/ per
duecentottantatré vite umane/ e poi per uno, uno per uno.
Le vittime questa volta
però sono novecento e si assommano alle ormai migliaia di corpi in
mare che la cronaca ci sottopone agli occhi, alle orecchie, alla
nostra coscienza.
La poesia Naufragio
è di Walter Cremonte, un fine letterato e poeta di Perugia che ha
raccolto pochi ma significativi versi in un libricino “Respingimenti”
(ed. LietoColle, 2011). L’avvenimento cui si riferisce e da cui
prese lo spunto, il naufragio di Portopalo avvenuto nel 1996 e
chiamato il naufragio fantasma perché per molto tempo non se ne
parlò. Ci fu solo una notizia sul “Manifesto” con un articolo di
Dino Frisullo (di cui due parole sono riprese fra virgolette nella
poesia Portopalo) e alcuni anni dopo una inchiesta su
“Repubblica”. C’era interesse a non far sapere; i barconi dei
dannati della terra e del mare erano solo agli inizi; ma nel fondo
del mare era rimasta questa stiva piena di morti, migranti
provenienti soprattutto dal Bangladesh nel periodo di Natale: A
Natale non succede mai niente /tutti lì ad aspettare che passi/ e
anche sul fondo del mare/ attendono, “ignoti e insepolti”./ Ma
forse qualcosa riaffiora/ forse fiorisce. Nelle acque del mare
affiorò una carta di identità con il nome di un ragazzo del
Bangladesh di diciassette anni, morto, chiuso nel fondo del mare. “Mi
colpì molto – dice Cremonte – si parlava dei sans papiers,
ovvero degli emigranti, dei clandestini senza documenti, e qui invece
si era trovato un papier, ma senza la persona. Ecco che nacque
questa mia piccola costruzione sull’esilio, sul naufragio. Ci
sentiamo sempre inerti di fronte a una tragedia del genere. E se non
possiamo concretamente fare qualcosa, possiamo però fare arrivare un
messaggio sempre a più persone, per sensibilizzarle, fin quanto ci è
possibile; per far comprendere ciò che accade su quei barconi pieni
di speranza oltre che di morte”. Cremonte utilizza i suoi versi. Si
è chiesto più volte se fosse meglio tacere davanti a tale tragedia,
se scrivere poesie fosse quasi un lusso inutile e perfino irritante
davanti a una realtà insopportabile di ingiustizia e sofferenza.
Il libricino
Respingimenti non dà risposte, indicazioni o soluzioni; sono
domande di fronte a ciò che è inspiegabile. Inizia con la poesia
Esuli e una citazione di Virgilio, dalla prima Ecloga,
“carmina nulla canam”, tradotta con “non canterò nessuna
canzone”; è la voce desolata del personaggio Melibeo, vero
archetipo dell’esule, del migrante, costretto a lasciare la sua
terra confiscatagli a favore dei veterani delle guerre imperiali. Se
pensiamo che questi personaggi della poesia pastorale sono
pastori-poeti, che vivono nell’idillio, nella finzione poetica di
una vita beata di lavori tranquilli e di amori e di poesia, quella
frase del pastore Melibeo può anche voler dire “rinuncio alla
poesia” di fronte alla catastrofe del suo destino di esule. “Che
spazio, che funzione può ancora avere la poesia? forse è impotente,
non salva la vita probabilmente, ma aiuta a capire. E le cose,
comunque, vanno dette, c’è l’esigenza di esprimersi”. E non è
vero che la poesia sia solo un gioire, un danzare, qui non c’è
fuoco che scalda/ solo fuoco che brucia/ stanze gelate incendiate.
“Cerco di rappresentare il naufragio, la morte per acqua di tanti
disperati – spiega Cremonte – e ho cercato di essere la voce di
uno di quei disperati: se annego non sto a discutere su quanti
immigrati possiamo accogliere, su quanti di questi potrebbero
diventare criminali, e se hanno il diritto o no di mangiare quello
che gli pare e pregare come vogliono il loro dio, se ne hanno uno. Se
annego dico: Mi manca la terra sotto i piedi, mi manca l’aria. E
chiedo aiuto.”
Il poeta perugino ha
chiamato a raccolta l’aiuto dei classici, Virgilio, Dante, Primo
Levi (che è citato – lungo è
il viaggio/ vuoti gli occhi, vuote le mani/ senza mai nulla sperare/
considerate se questo/ anche questo/ è un uomo-), Kafka e
il poeta tedesco Enzensberger che ha scritto della fine del Titanic.
Ma la chiave di questa
sua ricerca è nella Ginestra di Leopardi: “lì troviamo le
parole energiche, coraggiose, polemiche, che preludono a una
possibile e necessaria solidarietà tra gli esseri umani, sulla base
della consapevolezza – al di là, o forse meglio al di qua di ogni
falsa coscienza, di ogni mitologia consolatoria – del nostro comune
destino di fragilità e dolore: dalla coscienza e dall’accettazione
coraggiosa e senza infingimenti della universale condizione di
souffrance (ma c’è sempre chi paga di più, vittima
dell’oppressione e dello sfruttamento) alla rifondazione di un
patto sociale di mutuo soccorso (il “vero amor”).
Leopardi ci mostra una
concreta possibile realizzazione della terza, la più difficile e
negletta, delle parole della rivoluzione: fraternità”. E nelle
poesie Cremonte cerca di spiegare, cerca di convincere, cerca di
sensibilizzare: ora che vengono/ lasciali venire/ non sono
cattivi/ non più di noi./ Li porta la fame/la rabbia e la mitezza/ e
poi loro ci provano: /credo che erediteranno la terra. Si domanda che
cosa significa rimpatriare se uno una patria/ proprio non ce l’ha.
E si interroga su chi stabilisce le frontiere qui è tutto mare/
dov’è che si diventa/ fuorilegge. “Soltanto se riconosciamo
la nostra fragilità troviamo il coraggio di darci una mano, di
esserci l’un l’altro compagno, in uno scambio che non nasce da un
astratto e inaccessibile “dover essere”, ma dall’essere nudo e
crudo, materialissimo, come noi siamo”.
Dobbiamo accogliere i
migranti, che rischiano sempre la loro vita, Di qua di là di su di
giù/ li batte il mare/ e non c’è pace mai/ se il mare tace/ e un
po’ meno di male/ li assale/ si apprestano alla prossima rovina.
Dobbiamo dargli la
possibilità di approdare alla vita di nuovo /(stessi stenti,
stessa miseria/ stessa ostinata fermezza/ a provare). Perché
respingerli? perché far precedere il riandare dallo sguardo dove le
acque si chiudono?
“La nostra risposta
istituzionale è priva di pietà; Mare Nostrum aveva lo scopo di
salvare le vite, e adesso è stato tolto, superato in una idea di
difesa della fortezza Europa, ed ecco il risultato, ancora più
morti. Bisogna ritornare a una politica di aiuto, di soccorso e
accoglienza”.
Sotto una coltre
d’acqua / il fuoco le fiamme/ il ghiaccio e il ferro/ questo è
l’inferno./ Non ci sono ricordi/ né sogni/ l’assassinio è
compiuto/ e non c’è altro..
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