Il libro non l'ho
(ancora) comprato, ma della importanza di Storie di GAP (Santo
Peli, Einaudi editore) mi ha parlato Renato Covino, un
caro amico e compagno, storico di mestiere, raccontandomelo una
mattina che andavamo a piedi alla stazione di Fontivegge. Ora dal
Circolo Culturale Proletario di Genova (quello stesso che frequentava
Edoardo Sanguineti) mi arriva un accurato resoconto della
presentazione del libro in quella città, che volentieri qui posto.
(S.L.L.)
Ci sono voluti 70 anni
affinché i GAP (sigla dei Gruppi di Azione Patriottica) trovassero
nel saggio di Santo Peli, intitolato per l’appunto Storie di
GAP, la collocazione storiografica che spetta ad una delle forme
di lotta, quella terroristica, che, insieme con le azioni armate
delle bande partigiane operanti sulle montagne, nelle campagne e
nelle pianure, la Resistenza praticò contro il nazifascismo. In
sostanza, ci sono voluti 70 anni affinché il gappismo passasse dalla
dimensione della letteratura (Uomini e no, scritto da Elio
Vittorini nel 1944, fu il primo romanzo del terrorismo urbano
resistenziale) alla dimensione della storiografia e dalla dimensione
della storia locale alla dimensione della storia generale. È ancor
oggi difficile, per ovvie ragioni legate alla clandestinità in cui
si svolse la loro azione, ricostruire in modo preciso e completo la
storia dei GAP. D’altra parte, occorre riconoscere la funzione
determinante che ebbe questa forma di lotta sia rispetto alla
dinamica dei conflitti sindacali (scioperi, agitazioni e vertenze)
ingaggiati dalla classe operaia nel periodo 1943-1944, sia rispetto
alla capacità di controllo dei nodi nevralgici del territorio
urbano, politici, militari e amministrativi, da parte delle forze di
occupazione naziste e dei loro alleati repubblichini. La durezza
delle rappresaglie, avendo come posta in gioco il controllo dei
maggiori centri urbani, risultò così direttamente proporzionale
all’incidenza della pratica del terrorismo urbano. Non meno
rilevanti furono i dilemmi politici ed etici che segnarono tale
pratica: basti pensare alla difficile decisione di uccidere a sangue
freddo, al problema delle rappresaglie e alla tortura. Tuttavia, è
possibile affermare a ragion veduta che senza i GAP la Resistenza
italiana avrebbe perso la duplice possibilità di contrastare
l’attesismo predicato da alcune componenti della stessa Resistenza
e di neutralizzare la “zona grigia”, ossia quella parte ampia
della popolazione che non stava con i partigiani e non era ostile ai
nazifascisti.
Di questo e di altro si è
discusso, prendendo spunto dalla presentazione del saggio di Peli, in
un incontro con l’autore organizzato dal Circolo Culturale
Proletario di Genova nella Sala dei Chierici della Biblioteca Civica
“Berio” il 23 aprile scorso. Un incontro, va detto, reso
altamente significativo, data la sua ispirazione radicalmente
estranea alla ritualità e alla retorica delle celebrazioni
ufficiali, non solo dalla nutrita partecipazione di un pubblico
attento e motivato, ma anche dalla qualità delle relazioni
introduttive e degli interventi svolti da studiosi, militanti del
movimento operaio e protagonisti delle vicende resistenziali.
Relazioni e interventi che, configurandosi come autentici contributi
conoscitivi e fornendo validi spunti di problematizzazione sia sul
piano storiografico sia su quello politico-ideologico, hanno
arricchito e approfondito l’esame di un tema nevralgico della lotta
di liberazione nazionale.
Introducendo l’incontro
con un’ampia e articolata relazione, il prof. Eros Barone, studioso
della storia del marxismo e del movimento operaio, ha innanzitutto
osservato che, stante la scarsità della documentazione esistente su
un fenomeno intrinsecamente clandestino come quello del terrorismo,
il limite inevitabile della ricostruzione operata dall’autore di
Storie di GAP è la commistione tra fonti risalenti all’epoca
e fonti retrospettive, cosicché, per fare un esempio, ai fini della
ricostruzione delle vicende dei GAP risultano utili tanto i rapporti
interni sulle loro operazioni (esecuzioni ed attentati dinamitardi)
quanto le testimonianze rese da un reduce del terrorismo urbano tra
anni ’70 ed anni ’90 del secolo scorso. Bisogna dire allora, ha
argomentato Barone, che, se per un verso il risultato di tale
commistione è l’intreccio tra storia e memoria, tra storia ed
autobiografia dei protagonisti, per un altro verso esso può fornire
alla ricostruzione storica uno stimolo euristico grazie alla capacità
di combinare fra di loro nel modo più efficace e insieme rigoroso
tre doti fondamentali dello storico, che, riprendendo una felice
formulazione di Michele Battini, egli ha così riassunto:
immaginazione sociologica, pazienza cartografica e sapienza
cronologica. Se l’immaginazione sociologica è quella risorsa che
permette allo studioso di costruire tipologie adeguate degli eventi
esaminati, differenziando e collegando nel modo corretto tali eventi,
se la sapienza cronologica è quella risorsa che permette di
periodizzare nel modo giusto i processi storici, non vi è dubbio
che, assieme alle altre, la risorsa della pazienza cartografica sia
la dote di cui Peli fornisce la prova nella seconda parte del suo
saggio, là dove descrive le “condizioni esistenziali e materiali”
in cui operarono i gappisti, focalizzando il complesso rapporto
città-campagna e la peculiarità della realtà emiliana, dove il
gappismo poté svilupparsi in forme del tutto diverse da come si
sviluppò a Milano, Genova o Torino. Barone ha poi richiamato
l’assioma enunciato da Pietro Secchia - “la costituzione dei GAP
fu voluta e attuata solo dal PCI” -, assioma ritenuto
incontestabile da Peli, il quale, ha sottolineato Barone,
individuando le origini del gappismo nella guerra di Spagna con i
volontari delle Brigate internazionali e nei “Francs-Tireurs et
Partizans” della Francia di Vichy, contribuisce a porre in risalto
proprio la “diversità” comunista, ossia la radice leninista,
nella storia della Resistenza. A questo proposito, Barone,
affrontando il problema delle forme di lotta, del loro rapporto con
il movimento di massa e del loro significato nelle differenti
congiunture del conflitto di classe, ha analizzato, rimarcandone la
pregnanza e l’attualità, alcuni passi del fondamentale articolo di
Lenin sulla guerra partigiana, pubblicato nel n. 5 della rivista
“Proletari” il 30 settembre 1906. Dopo aver evocato gli scottanti
problemi delle rappresaglie e, in particolare, della tortura e dei
cedimenti con le conseguenze micidiali che da ciò scaturivano per la
complessa organizzazione dei GAP, il relatore ha ribadito il
carattere leninista della linea politico-militare a cui il PCI si
attenne nel corso della Resistenza armata contro il nazifascismo e ha
concluso affermando che, sostanziata dalle “storie di GAP”, “la
storia dei GAP” rientra organicamente in questa linea e, pur non
essendo che un segmento di essa, la illumina di una luce vivissima.
Santo Peli, che con
encomiabile modestia ha asserito di non voler intervenire sul proprio
libro, ha poi risposto con grande disponibilità dialettica ai
rilievi, alle osservazioni e ai quesiti che gli sono stati posti nei
numerosi interventi che si sono susseguiti sotto l’attenta
supervisione di Silvano Ceccoli, presidente del Circolo Culturale
Proletario.
Ha iniziato Nicola
Simonelli, autore della biografia di Giacomo Buranello, comandante
dei GAP genovesi a cui il Circolo Culturale Proletario ha dedicato un
convegno di forte impegno storico e politico-ideologico nel dicembre
dell’anno scorso. Simonelli ha sostenuto che nella costituzione,
nello sviluppo e infine nel declino dei GAP a partire dalla seconda
metà del 1944 è leggibile la linea moderata ed unitaria imposta da
Palmiro Togliatti alla parte più avanzata della Resistenza con la
svolta di Salerno e la nascita del ‘partito nuovo’. Assai netta
la risposta di Peli, il quale ha chiarito come i GAP non
prefigurassero alcuna strategia alternativa a quella seguita dal PCI
sotto la direzione di Togliatti, di Secchia e di Longo, essendo
semplicemente, insieme con le formazioni partigiane, uno dei due
strumenti usati dal PCI nella sua azione politico-militare.
Sul carattere magmatico
della Resistenza e, a maggior ragione, dei GAP, nonché sulle
difficoltà e sulle incertezze, sulle sofferenze e sui sacrifici di
una organizzazione del terrorismo urbano complessa, ma talvolta
fragile e non sempre impermeabile, ha poi insistito nel suo
intervento, confermando la giustezza della risposta di Peli, un
testimone eccezionale del tema al centro dell’incontro, quale è il
prof. Leonardo Santi, ex gappista e compagno di Giacomo Buranello,
nonché fondatore dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro
di Genova.
Di particolare rilievo è
stato inoltre l’intervento del prof. Antonio Fontana, docente
emerito di Diritto del Lavoro alla Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Genova, il quale si è soffermato, prendendo le
mosse dall’articolo 39 della Costituzione e recando pregevoli
chiarimenti di ordine storico e giuridico, sulla condizione operaia
e sulla lotta dei lavoratori per la libertà sindacale sotto il
regime collaborazionista della R.S.I.
È stata poi la volta di
Eraldo Bono, membro del Circolo Culturale Proletario, il quale ha
posto all’autore del saggio storico sui GAP una domanda sulla
composizione e sul reclutamento di questi “soldati senza la
divisa”. Domanda che ha consentito a Peli di accennare alla estrema
difficoltà nel reperire e formare questo tipo di combattenti:
difficoltà maggiore tra gli operai del triangolo industriale, poco
avvezzi al maneggio delle armi, che non tra i contadini della Bassa
Padana, dove non a caso si svilupperà, con il tramonto dei GAP, la
figura del sappista, ossia di un militante ‘part time’,
disciplinato lavoratore di giorno e organizzatore partigiano di sera
e di notte, che assumerà un risalto crescente, generalizzandosi
nell’intera Resistenza, con le SAP (sigla delle Squadre di Azione
Patriottica) a mano a mano che la Resistenza assumerà un carattere
tendenzialmente di massa tra la fine del 1944 e i primi mesi del
1945.
Non sono mancati, nel
quadro di un incontro segnato da un livello politico e intellettuale
di notevole spessore, taluni interventi di ispirazione bordighista,
in cui lo schematismo infantile ed un approccio meccanicistico alle
questioni teoriche e politiche del movimento comunista hanno fatto
aggio sulla volontà di restare aderenti al tema e sulla capacità di
mantenersi al livello imposto dal dibattito. È così toccato a
Simonelli, di fronte alla denigrazione della Resistenza armata contro
il nazifascismo, implicita in questo tipo di esternazioni, richiamare
il significato imperituro e il valore dirimente della battaglia di
Stalingrado, senza la quale i popoli dell’Europa e del mondo intero
vegeterebbero ancor oggi sotto la bandiera con la svastica tra
indicibili genocidi, uno sfruttamento bestiale della forza-lavoro e
discriminazioni di ogni tipo nei confronti delle più diverse
minoranze.
In conclusione, come il
Circolo Culturale Proletario aveva auspicato nel volantino di cui
sono state diffuse migliaia di copie nel Genovesato, la
presentazione del libro di Santo Peli, la contestuale distribuzione
delle fotocopie dello scritto di Luigi Longo su I vendicatori dei
GAP, scritto risalente al 1944 e tratto dal giornale comunista
“La nostra lotta”, e il dibattito che, come si è detto
all’inizio, ha arricchito e approfondito tale presentazione sono
stati veramente un’occasione preziosa per comprendere che della
complessa e grande esperienza della guerra di Liberazione ai GAP è
toccata la parte più ardua e per molti versi tragica, che merita di
essere studiata con serietà e rispetto per sottrarla all’aura
mitica che la circonda, e ancor più alla ricorrente e volgare
criminalizzazione, nonché, se è concesso fare una postilla di
ordine politico-ideologico che la rinascita del fascismo in Europa,
dalla tormentata Ucraina alla ‘civile’ Scandinavia, pone ormai
all’ordine del giorno, alla derubricazione del terrorismo urbano
dalle forme di lotta che il movimento di classe, in date condizioni,
deve saper praticare, secondo quanto Lenin afferma a chiare lettere
nell’articolo citato, sia sul terreno della difesa sia sul terreno
dell’attacco.
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