Julia Chase-Brand 1961 |
Il 1961 è un anno nel
quale, per la prima volta, succedono un mucchio di cose. Il primo
concerto dei Beatles al Cavern Club, il primo 45 giri dei Beach Boys
(Surfin’), il primo contratto discografico firmato da Bob
Dylan con la Columbia Records. Jurij Gagarin è il primo uomo a
volare nello spazio, nelle edicole americane esce il primo numero dei
Fantastici Quattro e Leonard Kleinrock pubblica il primo
articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà
alla base di internet. A Berlino posano il primo mattone del muro, in
Vietnam sbarcano i primi soldati americani. Mentre a Birmingham, in
Alabama, Carl Lewis tenta il primo sprint della sua vita dentro la
culla, a Manchester, minuscolo paesino del Connecticut, una ragazza
appena maggiorenne sfida il gli stereotipi della società americana.
E’ il 23 novembre, il
giovedì di Thanksgiving, e Julia Chase-Brand partecipa
clandestinamente a una corsa di 7 km e mezzo riservata a soli uomini.
E’ la prima donna a cimentarsi non solo con gli uomini ma
soprattutto con una gara sulla lunga distanza. Fino ad allora era
ottusa opinione comune che le donne non potessero correre più di un
km, pena la perdita della loro femminilità e nientemeno della loro
capacità riproduttiva. Nonostante i tentativi di fermarla da parte
dei giudici, Julia completa la sua gara lasciandosi alle spalle una
decina di maschi. Finisce sui giornali, indica la strada da
(per)correre a quelle che verranno dopo di lei. Dopodichè decide di
occuparsi d’altro e saluta.
Cinquanta anni dopo,
Julia Chase-Brand ha deciso di tornare sulle strade che la resero una
piccola pioniera dello sport femminile. Il 24 novembre correrà
nuovamente la Manchester Road Race. Stesso grembiulino del college
del ’61, qualche toppa qua e là. Le ginocchia un po’ malandate,
69 primavere e il desiderio di festeggiare con chi la accolse allora
e con chi ha raccolto il suo testimone. Il merito di aver riscoperto
la bellissima storia di Julia è del “New York Times” che l’ha
scovata nel reparto di psichiatria ambulatoriale del Lawrence and
Memorial Hospital (New London, Connecticut) dove lavora come
direttore medico, alla vigilia della Maratona di NY che si corre
domani. Il “Times” ha un legame particolare con lei. Negli anni
cinquanta, il papà della ragazza, lo scrittore John W. Chase,
recensiva libri per il giornale. Fu lui ad iniziare Julia alla corsa
tra gli alberi e i laghetti della fattoria della nonna a Groton.
Lei andava a caccia di
rane, granchi e tartarughe, giocava a baseball coi fratelli, correva
fino a scuola (un miglio e mezzo) quando perdeva il bus oppure ci
andava in canoa attraverso una palude salata. Quando la ragazzina
comincia a vincere le prime gare di velocità, il papà non mostra
grande interesse. «Forse ti andrebbe di provare il tennis, cara?».
Julia allora si intrufola al circolo del golf e si mette alle
calcagna di due maratoneti che si allenano lungo il green. Uno
è il campione nazionale John J. Kelley, già vincitore della
maratona di Boston. L’altro si chiama George Terry e decide di
allenare personalmente quella ragazzina che mette in imbarazzo i soci
del club. Nel luglio del 1960 la fa partecipare ad una gara sui mille
metri iscrivendola con una falsa residenza perché le donne del
Connecticut non potevano partecipare. Un assurdo divieto che
l’Amateur Athletic Union (Aau) estende in quegli anni a tutto il
paese seguendo l’esempio delle Olimpiadi dove le atlete non
potevano correre su distanze più lunghe di mezzo miglio perché,
secondo una parte della medicina ufficiale, un simile sforzo poteva
portare alla perdita dell’utero.
Julia la sua corsa la
vince a mani basse e pochi mesi più tardi partecipa ai trials di
qualificazione olimpica in Texas. Il fratello gli presta i
pantaloncini, la maglietta e delle scarpe da corsa enormi,
appiccicate ai piedi col nastro adesivo. Vede sfrecciare al suo
fianco Wilma Rudolph, la donna più veloce del mondo e per non avere
intralci lei gareggia senza reggiseno. Nessuno ci fa caso perché
finisce decima e non si qualifica per i giochi. A fine anno prova per
la prima volta a correre la Manchester Road Race, una gara ideata nel
1927 da tale Francis Duke Araburda, capitano della squadra di
cross-country della Manchester High School. E’ una gara famosa, la
più importante per partecipazione negli stati del nord-est dopo la
maratona di Boston. I tempi non sono ancora maturi e gli ufficiali di
gara le impediscono di gareggiare.
Julia però non demorde,
la disobbedienza civile è nel dna della sua famiglia. La bisnonna
Mary Foulke Morrison era stata una leader delle suffragette e il
bisnonno William Dudley Foulke presidente della American Woman
Suffrage Association alla fine dell’800. Così nell’autunno del
1961 Julia si iscrive ufficialmente alla corsa di Manchester
avvertendo gli organizzatori e la Aau che intende infischiarsene del
loro divieto. La stampa comincia a interessarsi al suo caso con
occhio accondiscendente e una dose abbondante di paternalismo. «Fate
largo maratoneti, si intromette una ragazzina del college», titolano
i giornali sottolineando che la ragazza è carina, intelligente,
simpatica, assolutamente femminile. “Life” le dedica un servizio
con lei che si arrampica su un albero. Titolo: Un maschiaccio sul
ramo. Sommario: La ragazza corre 4 miglia al giorno e completa
la corsa facendo la ruota e un po’ di ginnastica ritmica, talvolta
arrampicandosi su un albero». Dal Sud Africa e dal Giappone
arrivano attestati solidarietà, un nudista polacco reclama un calco
del suo piede.
Tutta quell’attenzione,
inaspettata, la mette un po’ in difficoltà. «Le donne non
corrono, io corro. Cosa sono dunque?». In realtà fuori dagli Stati
uniti le donne corrono eccome e anche in America qualcosa sta
cambiando. A sostenere la sua causa si presenta il dottor Charles
Robbins, due volte vincitore della corsa, uno convinto che anche le
donne avessero diritto alla forma fisica promessa dal neo-presidente
John Fitzgerald Kennedy. «Lo sport femminile è il futuro, è solo
questione di tempo». Infatti il giorno della gara altre due ragazze
si presentano alla partenza con Julia, dopo averne letto sui
giornali. Una, Chris McKenzie è una campionessa inglese 30enne che
ha appena partorito un bambino e arriva coi pantaloni della tuta del
marito, Gordon McKenzie, ex olimpionico. La moglie esibisce una
maglietta con su scritto «Se posso portare in grembo un bambino per
nove mesi, posso correre dieci km». L’altra è una studentessa
18enne di Manchester, Dianne Lechausse, di mestiere ballerina. Al
via, oltre a loro, ci sono 138 uomini.
Gli organizzatori,
preoccupatissimi, le fanno accomodare sul marciapiede. Julia, che ha
una fascetta in testa, una divisa scolastica e una croce al collo,
gesticola, si anima, discute. «Vedete, mica mi sono mascherata da
maschio. Sono qui come donna, con la mia gonna, i capelli appena
fatti, il rossetto sulle labbra. Io oggi corro». Quindi prende le
altre due, si confondono nella folla e alla prima occasione si
buttano in mezzo al gruppo dei corridori. Questa volta non le ferma
nessuno. McKenzie è la prima ad arrivare al traguardo ma preferisce
correre gli ultimi 20 metri sul marciapiede, trafelata, col timore di
essere squalificata a vita. Julia invece arriva in 33 minuti e 40
secondi, 128esima, dieci uomini che arrancano alle sue spalle.
Lechausse chiude ultima in 42’12’’. Il giorno dopo il Nyt
titola Tre donne battono alcuni uomini. In alcune edizioni il
dispaccio dell’Ap non c’è, sostituito da un articoletto su una
corsa di cavalli a New Orleans.
Julia Chase-Brand 2010 |
Julia promette all’Aau
che non disturberà più i colleghi uomini convinta che non si possa
più tornare indietro dopo quello che è successo. E invece no,
ancora per 13 lunghissimi anni gli organizzatori della Manchester
Road Race continueranno a negare alle donne il sacrosanto diritto di
correre come e quanto vogliono. «Scusate, non abbiamo i soldi per
premiare anche voi. E poi chi paga i lavori per costruire i vostri
spogliatoi…?». Il muro cade finalmente nel ’74, grazie a
picchetti e azioni di protesta la corsa viene finalmente aperta a
tutti e tutte. Su 1093 iscritti ci sono una cinquantina di donne.
Cynthia Wadsworth, campionessa liceale, vince in 29’10’’. Non
la premia nessuno, ci penserà tre anni dopo Amby Burfoot, che le
regala il televisore ricevuto in premio per aver vinto la gara due
volte di fila. Passano un altro po’ di anni e la maratona femminile
fa il suo esordio alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984. Quel giorno
Julia è davanti alla tv, vede Joan Benoit Samuelson tagliare il
traguardo felice, lei piange come una bambina. «Joan ringraziò
tutte le donne che le avevano permesso di arrivare fin lì. Io l’ho
preso come un grazie molto personale. Fossi nata dieci anni più
tardi, forse ci sarei stata io al suo posto».
Nel frattempo però Julia
ha cambiato vita. Ha rinunciato all’atletica dopo aver fallito
l’appuntamento con i trials olimpici del ’64 e ha scoperto una
nuova passione. I pipistrelli. Si laurea in biologia e concentra i
suoi studi di dottorato sui chirotteri. Li segue dagli alberi di
Central Park fino alle montagne di Trinidad, dove arriva a contare 80
specie diverse camminando sopra 5 metri di cacca di pipistrello. Poi
li insegue a Panama, in Sud America e in Australia dimostrando che
quelli volano non solo grazie agli ultrasuoni ma anche attraverso la
vista. Passa giornate intere sdraiata di schiena a osservarli e a 28
anni i medici le diagnosticano la sclerosi multipla. E’ costretta a
rinunciare al sogno di laurearsi anche in medicina, senonchè dopo 7
anni quegli stessi medici le comunicano un piccolo errore. «Scusa,
ci eravamo sbagliati. Eri sana come un pesce».
Poco male, Julia riprende
a correre, in strada e nella vita. Dopo 25 anni da biologa, decide
che vuole fare la psichiatra infantile e nel ’96 si laurea all’
Albert Einstein College of Medicine, nel Bronx. Ha 53 anni, è la più
vecchia del corso. «Le donne della mia famiglia hanno vissuto fino a
90 anni e non hanno perso colpi fino a 89 – sorride il giorno del
diploma – credo di avere ancora qualche anno per divertirmi».
E infatti rieccola qua
pronta a correre di nuovo la corsa che le cambiò la vita.
«Completare quella gara fu un momento decisivo per me. Capii che se
fossi riuscita a gestire quel tipo di pressione, avrei potuto fare
qualunque cosa nella vita, essere me stessa e sentirmi libera.
Proprio come quando correvo e credevo di essere un gran
bell'animale».
ALIAS N. 42 - 5 NOVEMBRE
2011
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