I popolani urlano, fuggono, precipitano dai dirupi. E' un massacro |
Gli aristocratici lo
chiamano demagogo, ma Tiberio Gracco è onesto e valoroso: si è
distinto nell'assedio di Cartagine e nella guerra in Spagna; è stato
un irreprensibile questore.
Tornando in Italia ha
constatato lo sfascio in cui il paese versa per colpa della rapacità
dei nobili, padroni di immensi latifondi acquisiti illegalmente. Sa
che la terra è proprietà dello Stato, il quale anticamente aveva
suddiviso i campi tra i soldati che li avevano conquistati: ma gli
aristocratici hanno illegalmente comprato quei campi a prezzi
irrisori, profittando della miseria in cui i piccoli proprietari
erano caduti a causa delle continue guerre in cui i patrizi stessi li
trascinavano. Roma trabocca di poveri, soprattutto ex proprietari
rifugiatisi in città per vivere di espedienti o di clientelismo;
restando in campagna sarebbero divenuti «coloni» al servizio di un
ricco, che li avrebbe pagati al massimo con l'ottava parte del
raccolto! Oppure avrebbero fatto la vita del bracciante, assai
peggiore di quella dei tanti schiavi che lavorano le terre dei
signori. Unica soluzione è la redistribuzione dei campi. Tiberio è
onesto, e lo sa. Progetta una riforma agraria coraggiosa, che non
permette di possedere più di duecentocinquantaettari: le terre così
rientrate in possesso dello Stato saranno date ai poveri in
appezzamenti inalienabili di sette ettari ciascuno.
Le parole del tribuno
infiammano il popolo: «In Italia le bestie hanno un buco per
dormire. Ma chi lotta per l'Italia ha solo aria. Vaga con la famiglia
senza casa; e i generali lo frodano nell'ora della battaglia,
spronandolo a proteggere dai nemici la casa e la tomba dei padri;
giacché nessuno dei Romani (e son tanti) ha casa né tomba! Ma
combattono e muoiono per la ricchezza altrui. Non hanno una terra
loro, e son chiamati padroni del mondo!». Influenzano le idee di
Gracco due filosofi stoici, Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma:
essi ritengono che la terra è per natura comune, e che le persone
sono per natura libere.
La riforma è approvata
dal popolo con uno storico plebiscito. Ma un collega di Gracco pone
il veto: è il tribuno Marco Ottavio, latifondista, «uomo di paglia»
del partito degli sfruttatori che veste la toga di difensore del
popolo. Che fare? Secondo la legge, il tribuno è inviolabile, non
può esser deposto, e il suo veto è vincolante. Gracco tenta il
tutto per tutto. Con rivoluzionario coraggio grida all'assemblea
popolare: «Può un tribuno del popolo tradire gli interessi del
popolo?». I Romani tumultuano. Una nuova votazione, e Ottavio è
deposto. È una vittoria politica, ma attenzione: pur volendo
semplicemente riequilibrare il potere in senso democratico, Gracco ha
compiuto un atto illegale, porgendo il fianco alla propaganda
padronale; che puntualmente lo accusa di demagogia. «Vuoi governare
da solo, eliminando noi, i difensori dello Stato!».
Ma Gracco procede col suo
piano : stabilisce che le ricchezze derivanti dalle nuove conquiste
siano destinate al finanziamento dei nuovi piccoli proprietari. C'è
però ancora un'incognita: cosa accadrà alla fine del mandato di
Gracco? Egli, per legge, potrebbe ricandidarsi solo fra dieci anni!
Ma decide di violare
anche questa norma, e si candida per l'anno seguente: spera così di
salvare la riforma agraria da chi vorrebbe sabotarla. È l'errore
politico. Ora i nobili sbraitano che Tiberio aspira alla corona, e
divulgano questa calunnia. In segreto decidono la «linea della
fermezza», appellandosi all'amor di patria. Fanno credere che Gracco
è contro il popolo, che vuole eliminare tutti i tribuni, che si è
fatto incoronare, che ha dato le terre ai suoi parenti. Giunge l'ora
degli avvisi «mafiosi»: un amico di Tiberio muore avvelenato.
Allora i compagni di Gracco circondano la sua casa per difenderlo.
«Preparano un colpo di Stato!», dicono nel Foro alcuni
aristocratici travestiti da popolani.
Arriva il giorno delle
elezioni: il Campidoglio straripa di gente vociante. A un tratto
giunge la notizia che i nobili tramano un colpo di mano. I partigiani
di Tiberio si armano alla meglio, e lui non riesce a placare il caos
che si è creato. D'improvviso la gente urla, fugge all'impazzata, si
calpesta, precipita dai dirupi!... Sono arrivati i patrizi con le
loro squadraece armate di bastoni, e con questi si fanno strada verso
Tiberio; gli strappano la toga; lo colpiscono con una sedia; lo
massacrano. Gettano il suo corpo nel Tevere, insieme a quelli di
trecento suoi partigiani lapidati e linciati.
Nei giorni seguenti,
invece di condannare la strage, lo Stato vieta il lutto e perseguita
i «complici» del tribuno ancora vivi. Diofane è chiuso in un otre
con le vipere. Blossio va in Oriente, ove morirà tentando una
rivoluzione. Ancora una volta la forza ha calpestato il diritto.
Dodici anni dopo Caio Gracco, fratello di Tiberio, seguirà la sua
sorte.
Ma i due Gracchi
diverranno un simbolo della lotta per la libertà.
“Avvenimenti”, 11
settembre 1991
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