Un fotogramma dal film "Cronache di poveri amanti" di Carlo Lizzani (1954) tratto dall'omonimo romanzo di Vasco Pratolini - Archivio fotografico l'Unità |
Tra i nostri vari autori
ormai relegati in una sorta di canone secondario, ancora noti ma
pacificamente ostracizzati dalla critica, Vasco Pratolini è un caso
da manuale: sempre familiare al pubblico (anche grazie a film
peraltro per lo più non all’altezza né dei libri né dei
registi), ma ritenuto indegno di ridiscussione, senz’altro
classificato – sulla scia di giudizi ripresi alla svelta – come
esempio di articolazione populista e melensa dell’ideologia
comunista. Un’etichetta che, oltre a offuscare l’eterogeneità
della sua produzione (passata dall’autobiografismo intimista agli
attraversamenti lungo fasce sociali e tecniche compositive disparate
dello Scialo e di Allegoria e derisione), ne misconosce
l’interesse: come può ora indurre a verificare la ripubblicazione,
per la Bur «Scrittori contemporanei», di tre suoi romanzi: Cronache
di poveri amanti (pp. XXX-433, € 9,00), Le ragazze di
Sanfrediano (pp. 144, € 7,00) e Metello (pp. XXX-331, €
9,00), introdotti rispettivamente da Walter Siti, Francesco Piccolo e
Antonio Pennacchi.
Le ragazze di
Sanfrediano è una messinscena graffiante di giochi di seduzione
che celano aspri rapporti di forza e di ossessioni divistiche
rifluite nella quotidianità che quasi precorrono i reality show,
ma non va oltre il bozzetto circoscritto; Metello, spunto di
una famosa polemica tra Salinari e Muscetta e di un controverso
ripensamento della politica culturale del Pci e delconcetto di
realismo, è un Bildungsroman ravvivato da caratterizzazioni
efficaci ma imbrigliato in una didascalica corrispondenza tra
maturazione politica e maturazione affettiva (un commento a parte
meriterebbe poi la prefazione di Pennacchi, che difende dalle
obiezioni di Muscetta e Fortini non il libro ma un protagonista
risolutamente umanizzato, nel seguente modo: «’sto cristiano […]si
ritrova a dover fare il capo e il sobillatore, ci va pure in galera,
che altro deve fare di più? Deve uscire dalle pagine e ti deve dare
una bastonata in testa?»); a sollecitare di più la riflessione è
il testo che cronologicamente viene prima, Cronache di poveri
amanti (1947), storia corale di un microcosmo fiorentino, Via del
Corno, all’epoca dell’irrigidimento della dittatura fascista. Si
tratta di un’opera di semplicità ingannevole: lo stile
apparentemente piano nasce, come indica la densissimaprefazione di
Siti, da un laborioso impasto di influssi, intreccia sonorità epiche
e ritmi teatrali, riproduce il parlato collettivo con un indiretto
libero modellato sui Malavoglia ma punteggiato da metafore e
composti che riecheggiano le sperimentazioni novecentesche; e la
narrazione destabilizza surrettiziamente le attese, perché la
monodia delle sue linee portanti, il quadro di costume e l’engagement
politico, passano in effetti per sbalzi e dissonanze, rivelano una
polifonia sotterranea.
Per quanto tenero e
nostalgico, indugiante su vecchie usanze (le «scampanate»
burlesche, le fiere quaresimali) e fitto di stereotipi sedimentati
(lo strozzino sordido, il pregiudicato gaglioffo), il quadro di
costume non stinge in immagineoleografica, soprattutto perché
distribuisce irregolarmente luci e ombre: il più simpatico degli
eroi giovani, Mario, appare chiuso in una morale rigida che gli
preclude la comprensione umana; la più fosca delle figure negative,
la Signora, ex cortigiana che domina Via del Corno manipolando gli
uomini e seducendo le ragazze, risulta mossa da una tormentata
esigenza di rivalsa (che anticipa quella di un’altra «vecchia
signora», la protagonista di un noto dramma di Dürrenmatt, decisa a
trasformare in bordello il mondo che l’ha trasformata in
prostituta). E le differenze si innestano su un’affinità di fondo,
un’impossibilità di evasione dalla strada che è impossibilità di
evasione da un destino asfittico, le cui forme vanno dall’endogamia
spontanea (i consuoceri che rimasti vedovi si scoprono innamorati)
alla dipendenza dai fantasmi dell’inconscio (il giovane che si
ribella alla tirannia del padre per ricalcarne poi irresistibilmente
le orme). La comune oppressione ispira una solidarietà per nulla
idillica, il cui centro aggregante è il gusto crudele del
pettegolezzo, l’esplosione continua di scandali domestici, innocue
storielle di corna o scopertedi segreti torbidi, verità che le
dicerie distorcono o dicerie che (come la voce su una donna
irreprensibile fabbricata a scopo di intrattenimento dal
«ciaba-gazzettiere», il ciabattino Staderini) trovano inatteso
fondamento: la costante tematica diviene risorsa compositiva, il
testo, inanellando storie che sono già per i personaggi piacere
narrativo, le rifrange in diverse prospettive, ne mostra i diversi
versanti.
Se la raffigurazione di
questo soffocamento acronico non si appiattisce quindi in elegia
uniforme, anche l’evocazione della sterzata che l’attraversa, il
consolidamento del regime, non prende un taglio monocorde, segue una
prospettiva impegnata nitida ma non banalmente edificante.
L’orizzonte ideologico è saldo, messo nettamente in luce dalla
contrapposizione tra i fascisti Carlino e Osvaldo (uno freddamente
deciso alla propria scelta, l’altro trascinatovi da una smania
frustrata di azione), e i comunisti Corrado e Ugo (uno di integrità
morale all’altezza del vigore fisico che lo ha fatto soprannominare
Maciste, l’altro passato dalla deviazione al ravvedimento, entrambi
insomma eroi positivi degni degli auspici di Alicata); ma le
convinzioni non si distendono
in parabole esemplari, si
inarcano piuttosto in un groviglio irrisolto di pathos e speranza.
La sfida della commozione
è affrontata senza remore, ma anche senza tonfi retorici, da due
scene in cui la deflagrazione della violenza ha come unico riscontro
un dolore senza riscatto o una dolorosa inadeguatezza:la morte eroica
di Maciste, confortata non da messaggi o commenti (la virata
enfatica, nutrita di rimandi epici e biblici, che la precede, si
dilegua davanti alla drammatica evidenza degli eventi), ma solo da un
cordoglio privo di espressione («Mario e Milena s’azzardarono
fuori […]Maciste ebbe due amici che lo vegliarono, nelle prime ore
del suo lungo sonno»); e la morte in sordina del bottegaio Alfredo,
accompagnata da una presa di coscienza disarmata e incerta («Ora
capisco che al mondo non esiste soltanto la bottega, tuttavia non
sono più in tempo per ricominciare. E chissà se non ricomincerei
aprendo una pizzicheria!»). D’altra parte, gli spiragli sul futuro
non si dilatano, le sorti dei personaggi sfuggiti alla chiusura della
strada e del destino non si determinano, la fuga della coppia più
giovane si interrompe, seppur provvisoriamente, nell’ultima delle
albe che costellano il racconto, momento che segna insieme la
rigenerazione dei sentimenti e l’angoscia del distacco (Fortini
osserva che Pratolini è sì «un crepuscolare; ma dell’alba»,
tipica situazione di incrocio tra stati contrastanti); la ribellione
consapevole non si precisa, è su uno sprazzo di ribellione istintiva
e precaria, l’esasperazione del ciabattino conformista, che la
vicenda si ferma. Filtrata ma non attutita da squarci lirici e tocchi
pittoreschi, disseminata in una pluralità di fallimenti, compromessi
e dubbi, la rappresentazione dell’ingiustizia resta dunque aperta,
inquieta, non riconciliata.
Varrebbe la pena di
riconsiderarla, specie in un’epoca di nuove epopee e ritorni al
realismo, che, non più compressi ma neanche più alimentati da
utopie e ideali politici, si risolvono spesso in esaltazioni di
eroismi fine a se stessi e in realismi non meno ingenui perché
conditi con frettolose salse di citazioni; ma questo è un altro
discorso.
alias 28 maggio 2011
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