Posto qui la seconda parte, dedicata soprattutto all'Italia, dell'articolo di Binni pubblicato su "Il Ponte" nel marzo scorso con il titolo Un'altra storia. (S.L.L.)
Concentrare il potere
decisionale in un’area sociale ristretta (ne parlava già Leopardi)
presenta certamente dei vantaggi: le complicità tra consorterie
economiche, decisori politici e gestori amministrativi si fanno più
stringenti; gli strumenti della comunicazione sociale unidirezionale
dall’alto in basso trovano un’efficace coerenza in campagne
mirate di asservimento dei sudditi consumatori; la normale dinamica
di esercizio del «biopotere», la gestione e il controllo delle vite
dei singoli, si militarizza chiamando in causa nemici interni ed
esterni, mette a frutto le reti attive, corruttive e criminali, di
consenso sociale, e coinvolge un intero paese negli scenari
geopolitici. Sono i vantaggi di un’oligarchia storicamente debole e
stracciona. In assenza di strategie anticapitaliste (perché sempre e
soltanto di questo si tratta) tutto appare possibile, in una corsa
malthusiana al rafforzamento del regime oligarchico e delle sue reti
di potere. Quando poi, come accade nel nostro paese, la tradizione
profonda del fascismo si coniuga con la retorica della «modernità»
(anche questa un’eredità del fascismo) su un terreno di
programmata ignoranza delle classi subalterne (distruggendo la scuola
pubblica, devastando i diritti costituzionali), le magnifiche sorti e
regressive di una banda di gerarchi possono apparire irrefrenabili.
Naturalmente è la farsa che segue la tragedia. L’estrazione di
classe dei nuovi gerarchi è medio-bassa, piccolo borghese (anche
questo nella tradizione del «sovversivismo» dei gruppi dirigenti
fascisti), l’ignoranza è una virtù, contano solo il potere e i
soldi (quasi sempre coincidono), l’importante è vincere
(«Vincere!») e rimuovere con maschia e giovanile determinazione
(«Giovinezza, giovinezza!») ogni ostacolo alla «modernizzazione»,
alle «riforme». È una corsa contro il tempo, bisogna «fare» in
fretta, per due ragioni principali. La prima: l’assetto democratico
disegnato dalla Costituzione inattuata del 1948, la «costituzione
formale» inattuale rispetto alla «costituzione reale»
contrabbandata dal teppismo berlusconiano e poi «democratico», deve
essere «riformato» secondo le modalità e i tempi stretti imposti
dall’Unione europea a direzione tedesca e dal Fondo monetario
internazionale; per tutti i paesi del Sud Europa il modello
strategico di riferimento è il paesaggio sociale devastato della
Grecia. La seconda ragione della fretta è strettamente legata alla
prima: nel conflitto geopolitico che oppone l’area atlantica
Europa-Stati Uniti all’asse Russia-Cina in una corsa al
posizionamento rispetto al dominio delle aree strategiche, all’Italia
è riservato un ruolo di intervento attivo nel Nord Africa, in
particolare in Libia, e in Medio Oriente a sostegno di Israele.
Naturalmente il quadro è complesso e contraddittorio, tutt’altro
che lineare: la campagna di cooptazione dell’Ucraina condotta
dall’Unione europea e dalla Nato è sostanzialmente fallita,
rafforzando la Russia; la guerra contro l’Isis, testa di ponte
statunitense per disgregare la Siria e attaccare l’Iran, sta
rafforzando proprio l’Iran in prima linea nei combattimenti contro
l’Isis, mentre resiste il governo siriano; in Libia, la prospettiva
di un intervento occidentale sta suscitando nuove dinamiche
anticoloniali tra i gruppi del disgregato stato libico, accentuate
dall’intervento militare del governo filo-occidentale dell’Egitto.
L’Italia, grazie alla
«banda stretta» di un governo liberista, espressione di una forte
minoranza degli elettori nonostante le fandonie comunicazionali di un
Pd al 41% (in realtà poco più del 20% degli aventi diritto al voto)
che si presenta come «Partito della Nazione» senza alcuna
alternativa possibile, è oggi coinvolta in questo pericoloso quadro
strategico; le politiche di destra (in economia, nel sociale, sulla
questione dell’immigrazione) di un partito nato con un elettorato
di centro-sinistra favoriscono lo sviluppo delle culture xenofobe e
razziste, dell’islamofobia, della subalternità servile ai piani
atlantici ed europei. La «banda stretta» è profondamente corrotta,
insofferente a ogni controllo, in conflitto permanente con il potere
costituzionale della magistratura: all’Expo 2015 potrà esporre i
mandati di cattura. È la nostra casba in cui si aggirano furfanti di
ogni risma, di ogni classe e di ogni età, la piramide interclassista
del malaffare, delle complicità tra truffatori e truffati, tra
politicanti e miracolati, tra ricchi e poveri. È la solita vecchia
Italia del fascismo, tra futurismo (ah, la modernità!), culto del
capo, servilismo, sopraffazione, propaganda, sovversivismo delle
classi dirigenti, oggi «democratiche» e neodemocristiane. Il morbo
assicura l’esercizio del potere e il controllo di un paese privo di
rappresentanza politica, costretto all’astensionismo elettorale.
Ma la «banda stretta»,
la concentrazione del potere in un’area ristretta di malaffare
sostanzialmente delegittimata, comporta anche il suo isolamento: i
suoi figuranti sono pienamente visibili, i suoi comportamenti sempre
meglio riconoscibili e perseguibili politicamente. In parlamento, gli
eletti del Movimento 5 Stelle hanno imparato a svolgere un ruolo
attivo di opposizione puntuale e di controinformazione all’esterno.
Nella società, l’opposizione sociale comincia a cercare un terreno
di «coalizione» dal basso delle diverse e diffuse esperienze di
movimento, per avviare processi di ricomposizione di un mondo del
lavoro frantumato dal liberismo e dalla distribuzione del reddito
dalle classi popolari e dal ceto medio verso l’«alto» (si fa per
dire) dei potentati economici, le questioni della «democrazia»,
della «legalità», dell’«eguaglianza», dei «beni comuni»,
dell’unità di lotta tra «italiani» e «stranieri», si stanno
ponendo come le questioni fondamentali su cui ricostruire dal basso
processi politici e culturali nella prospettiva del superamento
dell’arcaico modo di produzione capitalistico e delle sue derive
finanziarie. L’«altra Europa» della Grecia e della Spagna (ma i
movimenti si stanno sviluppando nella stessa Germania) è vicina, il
terreno di lotta e di collegamenti è questo. Quanto alla guerra,
come insegnò Brecht, «Al momento di marciare molti non sanno / che
alla loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda / è la
voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è lui stesso il
nemico». Sappiamo che cosa dobbiamo fare. E lo sanno le centinaia di
rappresentanti di tutto il mondo riuniti a Tunisi nel «Forum sociale
mondiale» alla fine di marzo, un altro passo avanti sulla strada di
un’altra storia.
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