La Sinagoga Grande a Mantova |
Il brano che segue è
parte del racconto che il grande germanista Cesare Cases (un ebreo
molto poco ebreo) fece a puntate sul “manifesto” (non so dire se
altrove ristampato) dei suoi rapporti con ebraismo, sionismo e
antisemitismo. A me pare un piccolo capolavoro dell'arte
memorialistica: senso storico, razionalismo illuministico e ironia ne
sono gli ingredienti fondamentali. Lettura vivamente consigliata.
(S.L.L.)
Cesare Cases nel 1995 |
Essere antisemiti è
facile, ma ebrei? In comunità compatte e legate alla tradizione
l'appartenenza naturale e irriflessa poteva essere, in prima istanza,
un fatto ovvio. In una situazione di emancipazione e di atomismo
sociale il raro ricorso alla tradizione era uno sforzo imposto
dall'esterno e soggettivamente incomprensibile. Per chiarirlo a se
stessi bisognava storicizzarlo, e con ciò stesso dissolverlo.
Da quando mio nonno era
piovuto da Mantova a Milano, un secolo fa, in cerca di fortuna
borghese, la fortuna gli aveva arriso, ma l'appartenenza comunitaria
si era rifugiata in una pallida memoria di sinagoghe (o «scole»)
mantovane che già per mio padre non significava più nulla.
Nell'ascendenza di mia nonna — cui mi sentivo spiritualmente più
affine — c'era almeno un eroe, e un eroe può accendere la fantasia
più che il ricordo di qualche «scola».
Questo eroe era il
rabbino di Reggio Israele Carmi, che, andato giovanissimo come
deputato del dipartimento del Crostolo al sinedrio rabbinico del
1806, convocato da Napoleone a Parigi per spezzare le resistenze
della «nazione» ebraica e sottoporla alle leggi dello stato, dal
matrimonio al servizio militare, fu l'unico che votò contro anche
dopo che il grand'uomo, seccato dalle lungaggini degli ebrei, si recò
personalmente nella sala, misurandola su e giù a gran passi, per
porre loro un ultimatum, terrorizzandoli tutti con i suoi rat
fulminei: tutti, fuorché il mio impavido antenato. Da ragazzo avevo
letto un libretto commemorativo che narrava questo episodio, di cui
trovai più tardi conferma in accenni delle grosse storie del popolo
ebraico del Gràtz e del Dubnow.
Ma questo eroe che aveva
sfidato le ire napoleonlche e cui potevo rifarmi, anche se un po'
vecchiotto, per dare qualche senso e lustro al mio essere ebreo;
questo personaggio che m'immaginavo minuto, fragile e tenace di
fronte a Giove Tonante come la sua discendente, mia nonna, di fronte
al voleri tirannici di suo marito, aveva poi ragione? In fondo non
sapevo se optare per lui o per il suo antagonista, di cui i miei
testi scolastici vantavano l'opera di distruzione del particolarismo
e dell'arbitrio feudale, a giovamento tra l'altro proprio degli
ebrei.
Nella mia testa confusa
l'ebreo cozzava con il borghese, e il secondo era molto più saldo,
anche perché la contraddizione si presentava per la prima volta. In
quegli anni Benjamin, Bloch e Gershom Sholem andavano teorizzando
l'incompatibilità di borghesia e spirito ebraico, ma io non ne
sapevo nulla e del resto non li avrei capiti. Oggi che il riflusso
delle speranze rivoluzionarie fa pensare che i particolarismi siano
l'unico argine al potere dei monopoli, tutti mi invidierebbero un
antenato che si oppose al grande livellatore. Io, invece, nutro
ancora 1 miei dubbi. Così Ceronetti, Zolla, Calasso, che pur non
essendo ebrei hanno studiato l'ebraico fin da piccoli per poter
leggere
lo Zohar, non
possono capire perché io non evadessi dalla borghesia nel misticismo
ebraico. Invece, ahimè se c'era un filosofo ebreo che mi interessava
era proprio il grande razionalista Maimonide.
La realtà è che,
sconfitto il mio avo reazionario (o forse, adesso, per carità,
rivoluzionario) e tramontata la comunità ebraica come fatto
culturale, salvo che nell'ebraismo orientale cui erano ancora vicini
gli scrittori tedeschi e mitteleuropei, essere ebrei significa
semplicemente un modo di essere borghesi. Per aver rivelato questo
segreto di Pulcinella, Natalia Ginzburg fu allontanata qualche anno
fa dalla Stampa. In prima istanza il mysterium Judaicum era
proprio questo, ed era già abbastanza difficile da capire per un
bambino; in seconda istanza esso consisteva nel vago timore di non
poter mal contare interamente su questa appartenenza, poiché al di
là di Lambrugo c'era qualche Longone al Segrino e al di là ancora
una caduta brusca, il trauma delle persecuzioni, dimenticate ma non
scomparse nel subconscio.
Un senso di provvisorietà
e di insoddisfazione era quindi insito in quella coscienza borghese
senza bisogno di disseppellire la Cabala e di condannare il mondo in
nome del trascendente. La comunità scomparsa era ridotta al culto
della famiglia e alla feroce ascesi inframondana, per dirla con Max
Weber, che esso comportava e di cui mio padre era un interprete
radicale, mentre nell'estroversione e nella vitalità anche un po'
volgare di mio nonno echeggiava, oltre all'arrivismo del pioniere
borghese, un resto delle gioie sabbatiche delle «scole» di
provincia. La chiusura nel privato conferiva alla società la forma
del male necessario e il più possibile “vitando”, ma il suo
fantasma giganteggiava nella mente con la forza del represso,
determinando quella tendenza a interpretare tutto nella dimensione
sociale su cui ha insistito Sartre. Tuttavia la società penetrava
nel sacrario familiare nella sua veste più astratta e inumana, il
denaro, il cui culto non si identificava con l'avarizia
tradizionalmente attribuita agli ebrei — e che forse sarà esistita
fino a Shylock, finché essi erano gli unici rappresentanti
dell'economia monetaria — ma aveva piuttosto carattere di
esorcizzazione della società stessa.
Anni fa Sebastiano
Tlmpanaro pubblicò un taccuino di viaggio di Graziadio Isaia A
scoli, scritto sul retro di un libro delle spese in cui il grande
linguista goriziano segnava ogni minimo esborso, e lo riconobbi un
vecchio conoscente, il libro nero su cui la mia nonna ogni sera
annotava le spese, arrovellandosi se le era sfuggito un centesimo.
Nell'ascesi protestante questo poteva servire a confermare il
borghese nella coscienza del successo e quindi della predestinazione;
in quella ebraica serviva assai più a soddisfare il Moloch del mondo
in cui si doveva vivere ma da cui non si era mai abbastanza al
sicuro, sicché assolto il rito e pagato il debito si poteva tornare
alla religione familiare, l'unica in cui si era rifugiato il Dio
degli ebrei.
Nulla di tutto questo che
non fosse fondato sull'assise della società capitalistica, ma mentre
presso i cattolici che ci circondavano l'istituzionalizzazione del
divario tra essere e parere, tra norme e istinti, sopiva le
contraddizioni, esse premevano insopportabilmente nella vita
dell'ebreo, schiacciato tra l'angustia e l'immobilità di una
separatezza spacciata per felicità e l'irraggiungibilità del veri
desideri umani.
A Lambrugo passavo ore
davanti al cancello, nell'appiccicoso caldo pomeridiano, a leggere
tra l'altro certe lunghe e noiose biografie romanzate del Savoia. Ce
n'era una che mi piaceva perché l'eroe (chi era? Emanuele
Filiberto?) aveva scelto come motto J'atens mon astre. Anch'io
attendevo il mio astro, e che altro potevo fare in quella calda
solitudine? Ma intanto davo un'occhiata al cancello per vedere se per
caso arrivassero delle suore questuanti, perché avevo precise
istruzioni di dar loro due lire. Gli altri — mi aveva spiegato mio
nonno — ne davano una sola, ma noi ne dovevamo dare due perché
altrimenti si sarebbe detto che eravamo ebrei.
"il manifesto", 3 agosto 1982
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