Moses Hess |
Nel 1835 un giovane ebreo
di Bonn si iscrisse all'università della sua città. Non è escluso
che vi incontrasse (magari nell'aula dove Bruno Bauer teneva le sue
lezioni) un altro studente, anche lui ebreo, che frequentava la
stessa università: un giovanotto chiamato Karl Marx. Ma se Moses
Hess non conobbe in quegli anni Marx, lo avrebbe conosciuto in
seguito, ne sarebbe diventato amico e collaboratore (anche se l'altro
lo trattò sempre con una condiscendenza un po' sprezzante); e
sarebbe stato proprio lui a ispirargli — così almeno sostengono
molti studiosi — la famosa tesi secondo cui non basta capire la
realtà, ma si può e si deve modificarla. Hess aveva infatti
Scritto: «Non soltanto io so cosa voglio, ma voglio ciò che so»,
aggiungendo che si considerava «un apostolo più che un filosofo»,
poiché, diceva, la conoscenza serve a ben poco se non diventa
tutt'uno con l'azione.
"Normali"
e "diversi"
Questo incrociarsi delle
strade — e, entro certi limiti, del pensiero — di Hess e di Marx
può apparire (ma non è) paradossale: perché Moses Hess, l'ardente
comunista, l'agitatore sociale, colui che «convertì» Engels e
Bakunin, altri non è che il primo teorico del sionismo (anche se,
quando apparve Roma e Gerusalemme, la parola «sionismo»
ancora non esisteva).
Era nato nel 1812: tempo
di grandi speranze per gli ebrei, almeno per quei giovani ebrei
occidentali che, abbandonate le attività mercantili o finanziarie
esercitate dai loro padri, desideravano abbracciare le professioni
intellettuali. Al seguito delle Armate napoleoniche, tutta l'Europa
era stata percorsa dagli ideali della Rivoluzione francese:
l'uguaglianza, la libertà, la fede nella Ragione e nel progresso, il
diritto di ciascun uomo alla felicità. Come dunque stupirsi se essi
«guardarono alla Rivoluzione francese come a un momento paragonabile
all'esodo dall'Egitto e alla proclamazione della Legge dal Monte
Sinai»?
A dire il vero, gli
editti che sancivano l'emancipazione ebraica — a cominciare da
quello promulgato dall'Assemblea Nazionale francese — non facevano
che conformarsi alle esigenze del nuovo Stato: il quale, avocando a
sé la rappresentanza degli interessi di tutti i cittadini, non
poteva tollerare l'esistenza, in seno alla comunità nazionale, di
gruppi separati. E tuttavia, come ben sappiamo, l'uguaglianza dei
diritti non garantisce affatto l'uguaglianza delle possibilità. Ha
osservato Hannah Arendt: «Pur essendo un requisito essenziale della
giustizia, la parità di condizioni è una delle conquiste più alte
e malsicure dell'umanità moderna. Quanto più le condizioni si
avvicinano all'eguaglianza, tanto più difficile è spiegare le
differenze che in realtà esistono, e tanto più dissimili diventano
gli individui e i gruppi. Questa conseguenza apparentemente
paradossale viene in luce appena l'eguaglianza cessa di essere
l'eguaglianza di fronte a un Dio onnipotente, o alla morte come
comune destino umano, e diventa un principio organizzativo terreno
nell'ambito di un popolo... Le moderne società di massa offrono
innumerevoli esempi della facilità con cui si scambia l'eguaglianza
per una qualità innata di ciascun individuo, che viene definito
"normale" quando è come gli altri e "a-normale"
quando se ne differenzia». Un fenomeno, questo, che si verificò
anche durante il tentato processo di assimilazione degli ebrei:
quanto più le condizioni ebraiche si avvicinarono all'eguaglianza,
tanto più gli ebrei apparivano, agli occhi degli altri, «diversi».
Lo constatava con amarezza Ludwig Borne: «Alcuni mi rinfacciano di
essere ebreo, altri me lo perdonano, altri ancora addirittura mi
lodano per questo, ma tutti ci pensano».
Il fatto è che, in una
società divisa in classi, la sorte degli individui — quali che
siano i loro «diritti» — è legata all'appartenenza a questa o
quella classe sociale. Ora, anche e soprattutto dopo l'emancipazione,
gli ebrei si trovavano, da questo punto di vista, in una specie di
«terra di nessuno». Venuto a cessare, nel corso dell'Ottocento, il
legame della discriminazione giuridica della quale erano stati
oggetto, e quindi, almeno per le élites ebraiche desiderose di
assimilarsi, dissolto l'antico vincolo rappresentato dalla comunanza
di modi di vita e di credenze, la questione ebraica (come
osserva ancora la Arendt) diventò «un intricato problema
individuale» per cui il «giudaismo» finirà per cedere il posto
alla «ebraicità», intesa come una somma di attributi psicologici.
Ma la strada
dell'assimilazione si rivelerà ancor più impraticabile, ovviamente,
per gli ebrei non privilegiati: anche perché il loro ingresso, a
parità di diritti, nella vita sociale ed economica dei rispettivi
paesi, aveva il sapore una sgradita concorrenza per numerosi gruppi
sociali: di qui una sempre più diffusa ostilità per i «nuovi
venuti». Gli stessi privilegiati sul piano economico, vale a dire
gli ebrei che in passato avevano curato gli affari del principe e
finanziato le attività statali, si videro messi da parte, ora che
gli Stati ebbero bisogno di capitali ben più consistenti per poter
svolgere i loro nuovi compiti; ciò nonostante, quegli ebrei
continueranno ad essere oggetto dell'antipatia o addirittura
dell'odio, in quanto «rappresentanti dello Stato», di tutte le
classi che con lo Stato entreranno in conflitto. Insomma, per una
ragione o per l'altra, la speranza dell'assimilazione, che
nell'Europa occidentale era brillata così intensamente all'inizio
del secolo, andrà progressivamente affievolendosi.
Ma torniamo al giovane
Moses Hess. Infiammato dagli ideali di giustizia sociale (era appena
morto Saint-Simon), Hess decise di votare tutto se stesso al compito
di «riscattare gli uomini dalla schiavitù». Troncato ogni legame
con la famiglia (anche perché si era scelto come compagna — in
seguito l'avrebbe sposata — una ragazza «cristiana» da lui
conosciuta in un postribolo, Sybille Fresche) si gettò con ardore
nella sua nuova vita. E scrisse un libro — La triarchia europea
— che lo portò in primo piano tra gli scrittori socialisti
dell'epoca (auspicava, tra l'altro, l'abolizione della proprietà
privata).
Marx, pur giudicando
ingenue le idee propugnate da Hess, si avvalse a lungo della sua
collaborazione; e Moses lo ricambiò con un'ammirazione assoluta. In
una lettera ad Auerbach, Hess scriveva: «Il mio idolo si chiama
dottor Marx, ed è ancora giovane, 24 anni appena. Sarà lui a dare
il colpo di grazia alla religione e alla politica medioevali...
Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel riuniti
in una sola persona, e avrai Karl Marx».
Ma nel profondo della
coscienza, Hess continuava ad essere lacerato dai dubbi; anche
perché, a differenza di Marx, non riusciva a spogliarsi delle
proprie origini ebraiche (era rimasto molto turbato, a suo tempo, dai
cosiddetti «fasti di Damasco»: un prete era stato ucciso in quella
città e si sparse la voce che fosse stato ucciso dagli ebrei per
usarne il sangue a scopi ritualistici: i maggiorenti ebraici di
Damasco vennero così arrestati e torturati selvaggiamente, finché
le proteste di numerosi governi occidentali, premuti da influenti
personalità ebraiche, non portarono alla loro liberazione. Ne rimase
turbato anche Heine, che per prudenza, molti anni prima, in seguito
al divampare in Germania di violenze antisemite, aveva preferito
convertirsi.
Finalmente Hess si
persuase non solo che l'assimilazione ebraica era impossibile, ma
anche che nell'esistenza umana la lotta di razza è primaria, quella
di classe secondaria: se non si pone termine alla prima, nulla si può
fare per combattere le ingiustizie sociali; e per eliminare i
conflitti razziali bisogna che tutte le genti oppresse conquistino
una totale, autentica emancipazione. Così, nel 1862, pubblicò Roma
e Gerusalemme, in cui sosteneva che il problema ebraico poteva
risolversi, appunto, solo con un reinsediamento degli ebrei in Terra
Santa. Nella storia del sionismo, quel libro occuperà lo stesso
posto che, nella storia del comunismo, occuperà Il Capitale
(uscito cinque anni più tardi) del suo amico-avversario Karl Marx.
Quel rabbino
comunista
Si profilava così la
prima «soluzione politica» della questione ebraica, dopo il
fallimento, totale o parziale, dell'assimilazione (l'altra
«soluzione», come vedremo in un prossimo articolo, fu quella
marxista, per cui l'antisemitismo era un prodotto del sistema
capitalistico e sarebbe quindi scomparso dopo l'abbattimento del
capitalismo). Comunque sia, Roma e Gerusalemme cadde
nell'indifferenza generale e Moses Hess tornò a fare l'agitatore
sociale; tanto da diventare il rappresentante a Colonia
dell'Associazione operaia tedesca.
Colui che fu definito «il rabbino comunista» morì nel 1875. Bisognò aspettare vent'anni perché un altro uomo, che non aveva mai letto Roma e Gerusalemme, scrivesse i un altro libro che, al contrario, «avrebbe scatenato la rivoluzione». Quell'uomo si chiamava Theodor Herzl.
Colui che fu definito «il rabbino comunista» morì nel 1875. Bisognò aspettare vent'anni perché un altro uomo, che non aveva mai letto Roma e Gerusalemme, scrivesse i un altro libro che, al contrario, «avrebbe scatenato la rivoluzione». Quell'uomo si chiamava Theodor Herzl.
"la Repubblica", ritaglio senza data tra 1982 e 1983 (le vignette del retro sono datate 82, ma vi si pubblicizza una fiera milanese della primavera 83)
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