Federico il Grande in un ritratto di Antoine Pesne |
Aveva inaugurato la sua
ascesa al trono con un atto di violenza, la conquista della Slesia a
spese dell'Austria, che suscitò in Europa un'ondata generale di
indignazione di fronte a quello che si giudicava un autentico
crimine, perseguito con delittuosa sagacia in spregio alla morale
pubblica. Ma ancor prima che si concludesse il suo lungo regno,
durato quarantasei anni, era diventato una figura mitica, circonfusa
di gloria e di splendore: di qui l'appellativo «il Grande» che
quasi unanimemente venne riconosciuto a Federico II di Prussia. Non
furono tuttavia i tedeschi, o più esattamente i suoi sudditi
prussiani, a coniare un titolo onorifico così eccelso; il primo ad
usarlo e ad accreditarlo fu un francese, che già nel maggio 1740,
quando Federico succedette al «re sergente» Federico Guglielmo I,
aveva salutato il nuovo sovrano come «principe della pace e
dell'umanità» in nome degli ideali della Ragione e del bene
pubblico.
In effetti, Voltaire non
avrebbe potuto esprimere meglio le speranze che gli illuministi
riponevano nel giovane re di Prussia, il «re filosofo», da cui si
attendevano una condotta di governo ispirata ai principi dell'etica e
della giustizia che fosse d'esempio per altre teste coronate, e
agisse quindi da stimolo per un'azione riformatrice dall'alto.
Insomma, una sorta di assolutismo illuminato, come si dirà poi per
definire un sistema monarchico fondato su un rapporto organico fra
sovrano e popolo, all'insegna del diritto e dell'utile collettivo, e
non già su una legittimazione ricondotta alla volontà divina.
Cinico come lo zar
Da questo lato, Federico
non avrebbe deluso le aspettative dei «philosophes», pronti
in cambio a perdonargli le sue proiezioni aggressive. Fin
dall'inizio, egli si considerò «il primo servitore dello Stato» e
a tale concezione improntò il suo ufficio di sovrano, innovando il
sistema giuridico, limitando la censura, stabilendo un regime di
tolleranza in materia religiosa, promuovendo le arti e le scienze,
adoperandosi per conciliare la ragion di Stato con gli interessi
della collettività, pur nell'ambito di una monarchia assoluta e di
una società feudale.
In una lettera del 1746,
alla fine della guerra slesiana, D'Alembert scrisse che il re di
Prussia aveva riportato tre importanti vittorie: aveva sottomesso un
regno, aveva concluso la pace e soprattutto aveva accresciuto la
schiera ancora esigua dei «monarques philosophes». Trent'anni dopo,
nell'ultima lettera indirizzata a Federico (aprile 1778), Voltaire
ripeteva più o meno lo stesso giudizio: «ella ha vinto i pregiudizi
così come gli altri suoi nemici: può dunque compiacersi delle sue
opere in tutti i campi».
E tuttavia l'itinerario
di Federico non fu così univoco come i filosofi illuminati amavano
rappresentare o volevano che fosse. Anzi, se vi fu un autocrate in
senso sia politico che personale, questi fu proprio il re di Prussia.
Non solo perché Federico si comportò all'occorrenza con lo stesso
cinismo e gli stessi metodi arbitrari di uno zar di Russia, ma anche
perché non divenne mai un «re borghese», non riuscì mai a
trasformare sino in fondo la figura del re da « immagine di Dio» a
sovrano secolarizzato di uno Stato moderno.
Ciò non toglie, come
dimostra Theodor Schieder in un saggio che si raccomanda tanto per il
vigore narrativo quanto per l'equilibrio di giudizio (Federico il
Grande, Einaudi, pagg. 473, lire 65.000), che il monarca
prussiano sia stato 1'interprete e il rappresentante più genuino
delle idealità illuministe nella prassi politica e nell'arte di
governo. Federico bandì infatti ogni pregiudizio nella valutazione
delle cose e nell'esercizio del potere, eleggendo a metro di
riferimento per le proprie decisioni ciò che gli dettavano
l'esperienza pratica e il calcolo delle prospettive e dei rapporti di
forza.
Questo suo modo di agire
obbedì, in apparenza, ai canoni più collaudati del pragmatismo,
così da dare l'impressione a non pochi osservatori che la politica
del sovrano fosse priva di fondamenti teorici, a dispetto della
conclamata adesione del suo protagonista ai principi
dell'illuminismo. Ma, come giustamente rileva lo storico tedesco, il
realismo politico più spregiudicato e la capacità di mettere a
profitto con sapiente accortezza le opportunità che via via gli si
presentavano, fu solo un aspetto della complessa personalità di
Federico; l'altra componente fu appunto la tendenza a imprimere un
carattere etico e razionale al le sue scelte politiche e alle sue
norme di governo.
Proprio questa continua
tensione fra pragmatismo e idealismo costituì il tratto distintivo
più originale di Federico, un personaggio assai più contraddittorip
ai quanto comunemente si pensi. Ciò emerge anche dai suoi rapporti
con Voltaire, che non diedero mai luogo a un sodalizio integrale,
senza ambiguità e incrinature, ma piuttosto a un continuo alternarsi
di assonanze e divergenze, di fasi intense di mutuo apprezzamento e
scambio di idee e di altrettanto prolungati periodi di reciproco e
sospettoso silenzio.
Contro i mostri del
fanatismo
Tant'è che in nessun
altro caso si istituì un rapporto così stretto di attrazione e di
repulsione come quello che intercorse fra il sovrano prussiano e il
filosofo francese. Il primo era affascinato dalla capacità del
secondo di spaziare in tutti i campi del sapere e dello spirito, come
egli stesso avrebbe voluto fare in sintonia con la sua adesione ai
principi universalistici dell'illuminismo, ma attento, nello stesso
tempo, a mantenere ferme le distanze non solo dal la gente comune, ma
anche dalPélite intellettuale e dal suo più eminente
rappresentante. Voltaire, a sua volta, era convinto che Federico
potesse diventare, per mano sua, il paladino per eccellenza della
causa degli illuministi in lotta contro «i mostri della
superstizione e del fanatismo» (e perciò era portato a caricare
l'opera del re di Prussia di significati talora eccessivi); ma alla
fine restò deluso di fronte alle incoerenze del suo modello ideale.
Ma proprio questo impasto
di luci e di ombre, di forti contrasti interni, che caratterizzò la
tormentata esistenza di Federico, contribuì a fare di lui una figura
tanto singolare - e sicuramente eccezionale per i suoi tempi - assai
più che la poderosa opera di governante e di geniale condottiero,
che avviò la trasformazione della Prussia in una grande potenza.
Così che, se i suoi contemporanei (e non solo essi) non ebbero
certamente torto nel giudicarlo l'artefice (sia pure con maggiore
ampiezza di orizzonti rispetto ai suoi predecessori) di uno Stato
militaresco e burocratico, a sua volta Kant potè definire a buon
diritto l'età dell'illuminismo come il «secolo di Federico».
“la Repubblica”,
20 giugno 1989
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