5.5.15

Dondero. La guerra all’ingiustizia del partigiano con l’obiettivo (Angelo D’Orsi)

“La Stampa” ha pubblicato, all'incirca un mese fa, il resoconto che segue, dell'incontro dello storico Angelo D'Orsi, nella insolita vesta di reporter, con il grande fotografo Maro Dondero. Mi pare che valga la pena di riprenderlo. (S.L.L.)
Bagdad - Il sarto (1961) - Una celebre foto di Mario Dondero
Vado a trovarlo, Mario Dondero, dopo un paio di settimane di «ricerca». È a letto, malato dallo scorso dicembre. Sono reduce dalla visita alla bellissima esposizione che gli è stata finalmente dedicata, a Roma, alle Terme di Diocleziano, curata da Laura Strappa, compagna di Mario, e Nunzio Gustozzi. Una mostra fortunatamente prorogata al 26 aprile, e invito chi ne abbia la possibilità, a visitarla. Ebbene, proprio gli spazi delle Terme, con le istantanee di Dondero, e le esaurienti didascalie, il video della sua intervista, il ricco catalogo (edito da Electa), strappano la sua personalità al figurino del «fotografo» e anche a quello più complesso e ricco del «fotoreporter», e lo consegnano piuttosto al ruolo dell’intellettuale in senso pieno, e alto.

Militante
Proprio di questo vorrei discorrere con Mario, ossia della percezione che, da intellettuale militante, armato della piccola fedele Leica, ma anche di taccuino e penna, ha della realtà politica, con particolare riferimento ai 70 anni della Liberazione. Ma mi si chiede di essere breve, nella mia visita, per non stancarlo. Rinuncio al proposito di intervistarlo: ma, con voce quasi impercettibile, mi dice, no, parliamo pure.
Ed è lui a prendere la parola: «Bella cravatta», esordisce, confermando quella incredibile attenzione ai dettagli che emerge da ogni suo scatto. Tento un pistolotto sull’anniversario resistenziale, denunciando il revisionismo diventato ormai senso comune, e butto là: «Che cosa vuol dire essere partigiano?», e lo chiedo a lui che lo è stato davvero, in Val d’Ossola, a soli sedici anni. Mario è del 1928 e ha condotto un’esistenza errabonda, in ogni plaga del mondo. Ha incontrato fior fiore di intellettuali, nella Rive Gauche, in quella Parigi che è stata la sua patria d’elezione, ma ha conosciuto da vicino anche la rivolta di Budapest e le tante guerre del «dopoguerra», dal Vietnam all’Afghanistan.

L’esempio di Capa
Il suo idolo è Robert Capa, e la Guerra di Spagna è la presenza più forte nell’immaginario di chi non ha potuto parteciparvi, per mere ragioni anagrafiche. Avesse avuto l’età giusta, Mario sarebbe stato senz’altro il Capa italiano. Dondero ha collaborato sempre alla stampa di sinistra, dall’“Avanti!” all’“Unità”, dall’“Ora” di Palermo al mitico “Paese Sera” di Roma, e a grandi riviste internazionali, specie francesi (“Paris Match”, “Vu”…). Non aspetta neppure la fine della domanda, e parte: «Essere partigiano era l’atteggiamento più naturale… che un cittadino onesto dovesse avere».
Penso: il solito eccesso di understatement di quest’uomo che nella sua carriera di testimone con l’occhio fotografico ha attraversato guerre, conflitti sociali, avventure d’ogni genere, sempre con uno sguardo all’insegna precisamente dell’humanitas, come ha notato un suo amico ed estimatore, Massimo Raffaeli. Aggiungerei che il fotografo Dondero non va in caccia di immagini, ma è come se le situazioni, le persone, semplici o famose, aspettassero il suo obiettivo per essere trasformate in icone del loro tempo. E, a percorrere le 250 foto della mostra romana, ti appaiono ulteriormente modificate. Non testimoniano più semplicemente un istante, ma diventano, nella loro grazia, nella loro pulizia, o nella loro forza drammatica, ciascuna un capitolo dell’eterno presente, come dire, una rappresentazione della condizione umana.
Dondero appare preoccupato non di realizzare belle foto, ma di far parlare, attraverso di esse, belle persone. Anzi, potrei dire che per lui, la fotografia è la ricerca delle belle persone, anche in quelle che non lo sembrano, anche nelle situazioni più drammatiche: come egli stesso dichiarò una volta: «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono». Una dichiarazione di poetica che è un messaggio: umanistico, ancor prima che civile o politico.

Fiducia nei giovani
Il fondo ottimistico del suo animo me lo confermano le poche frasi che riesce a scandire, tra le pause, dominando la sofferenza serenamente, spesso con un sorriso appena percettibile. I partigiani, dunque. Ci saranno stati certo comportamenti scorretti, fra loro, anche, ammette, e parla per esperienza, ma… e lascia intendere che furono casi sporadici. Ma che cosa vuol dire essere partigiano? Non esita nella risposta: «Essere dalla parte della giustizia». E aggiunge: «Dalla parte degli onesti». Gli cito il Gramsci che odia gli indifferenti del 1917, atteggiamento al quale il militante socialista contrappone orgogliosamente il suo essere «partigiano». Mario commenta così: «Una scelta di campo». E delinea il proprio partigiano ideale: «Leale, generoso… che compie la sua scelta, senza opportunismo». «Specie in quei momenti lì», aggiunge, «quando pronunciarsi significava rischiare, giocarsi la vita».

Gli innocenti
Alla mia giaculatoria contro il trasformismo, male endemico di questo Paese, replica sereno: «Sì, ma tanta gente integra, c’è…». Mi spingo a chiedergli in che cosa consista lo spirito della Resistenza, e con semplicità risponde: «Il senso della giustizia...». Infine, insinuo la domanda sul futuro dell’Italia: accenna a un sorriso più evidente, come a dire: che domande mi fai! Ma non si fa pregare: «C’è tanta gente innocente», usa proprio questa parola, e un po’ mi sorprende, e poi, proseguendo, accenna ai giovani «che non fanno calcoli, ci mettono passione…». Insomma, «tendi all’ottimismo?». Esita un attimo e annuisce: «Sì, tendo all’ottimismo».


“La Stampa”, 10 aprile 2015

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