“La Stampa” ha
pubblicato, all'incirca un mese fa, il resoconto che segue,
dell'incontro dello storico Angelo D'Orsi, nella insolita vesta di
reporter, con il grande fotografo Maro Dondero. Mi pare che valga la
pena di riprenderlo. (S.L.L.)
Bagdad - Il sarto (1961) - Una celebre foto di Mario Dondero |
Vado a trovarlo, Mario
Dondero, dopo un paio di settimane di «ricerca». È a letto, malato
dallo scorso dicembre. Sono reduce dalla visita alla bellissima
esposizione che gli è stata finalmente dedicata, a Roma, alle Terme
di Diocleziano, curata da Laura Strappa, compagna di Mario, e Nunzio
Gustozzi. Una mostra fortunatamente prorogata al 26 aprile, e invito
chi ne abbia la possibilità, a visitarla. Ebbene, proprio gli spazi
delle Terme, con le istantanee di Dondero, e le esaurienti
didascalie, il video della sua intervista, il ricco catalogo (edito
da Electa), strappano la sua personalità al figurino del «fotografo»
e anche a quello più complesso e ricco del «fotoreporter», e lo
consegnano piuttosto al ruolo dell’intellettuale in senso pieno, e
alto.
Militante
Proprio di questo vorrei
discorrere con Mario, ossia della percezione che, da intellettuale
militante, armato della piccola fedele Leica, ma anche di taccuino e
penna, ha della realtà politica, con particolare riferimento ai 70
anni della Liberazione. Ma mi si chiede di essere breve, nella mia
visita, per non stancarlo. Rinuncio al proposito di intervistarlo:
ma, con voce quasi impercettibile, mi dice, no, parliamo pure.
Ed è lui a prendere la
parola: «Bella cravatta», esordisce, confermando quella incredibile
attenzione ai dettagli che emerge da ogni suo scatto. Tento un
pistolotto sull’anniversario resistenziale, denunciando il
revisionismo diventato ormai senso comune, e butto là: «Che cosa
vuol dire essere partigiano?», e lo chiedo a lui che lo è stato
davvero, in Val d’Ossola, a soli sedici anni. Mario è del 1928 e
ha condotto un’esistenza errabonda, in ogni plaga del mondo. Ha
incontrato fior fiore di intellettuali, nella Rive Gauche, in quella
Parigi che è stata la sua patria d’elezione, ma ha conosciuto da
vicino anche la rivolta di Budapest e le tante guerre del
«dopoguerra», dal Vietnam all’Afghanistan.
L’esempio di Capa
Il suo idolo è Robert
Capa, e la Guerra di Spagna è la presenza più forte
nell’immaginario di chi non ha potuto parteciparvi, per mere
ragioni anagrafiche. Avesse avuto l’età giusta, Mario sarebbe
stato senz’altro il Capa italiano. Dondero ha collaborato sempre
alla stampa di sinistra, dall’“Avanti!” all’“Unità”,
dall’“Ora” di Palermo al mitico “Paese Sera” di Roma, e a
grandi riviste internazionali, specie francesi (“Paris Match”,
“Vu”…). Non aspetta neppure la fine della domanda, e parte:
«Essere partigiano era l’atteggiamento più naturale… che un
cittadino onesto dovesse avere».
Penso: il solito eccesso
di understatement di quest’uomo che nella sua carriera di
testimone con l’occhio fotografico ha attraversato guerre,
conflitti sociali, avventure d’ogni genere, sempre con uno sguardo
all’insegna precisamente dell’humanitas, come ha notato un
suo amico ed estimatore, Massimo Raffaeli. Aggiungerei che il
fotografo Dondero non va in caccia di immagini, ma è come se le
situazioni, le persone, semplici o famose, aspettassero il suo
obiettivo per essere trasformate in icone del loro tempo. E, a
percorrere le 250 foto della mostra romana, ti appaiono ulteriormente
modificate. Non testimoniano più semplicemente un istante, ma
diventano, nella loro grazia, nella loro pulizia, o nella loro forza
drammatica, ciascuna un capitolo dell’eterno presente, come dire,
una rappresentazione della condizione umana.
Dondero appare
preoccupato non di realizzare belle foto, ma di far parlare,
attraverso di esse, belle persone. Anzi, potrei dire che per lui, la
fotografia è la ricerca delle belle persone, anche in quelle che non
lo sembrano, anche nelle situazioni più drammatiche: come egli
stesso dichiarò una volta: «Non è che a me le persone interessino
per fotografarle, mi interessano perché esistono». Una
dichiarazione di poetica che è un messaggio: umanistico, ancor prima
che civile o politico.
Fiducia nei giovani
Il fondo ottimistico del
suo animo me lo confermano le poche frasi che riesce a scandire, tra
le pause, dominando la sofferenza serenamente, spesso con un sorriso
appena percettibile. I partigiani, dunque. Ci saranno stati certo
comportamenti scorretti, fra loro, anche, ammette, e parla per
esperienza, ma… e lascia intendere che furono casi sporadici. Ma
che cosa vuol dire essere partigiano? Non esita nella risposta:
«Essere dalla parte della giustizia». E aggiunge: «Dalla parte
degli onesti». Gli cito il Gramsci che odia gli indifferenti del
1917, atteggiamento al quale il militante socialista contrappone
orgogliosamente il suo essere «partigiano». Mario commenta così:
«Una scelta di campo». E delinea il proprio partigiano ideale:
«Leale, generoso… che compie la sua scelta, senza opportunismo».
«Specie in quei momenti lì», aggiunge, «quando pronunciarsi
significava rischiare, giocarsi la vita».
Gli innocenti
Alla mia giaculatoria
contro il trasformismo, male endemico di questo Paese, replica
sereno: «Sì, ma tanta gente integra, c’è…». Mi spingo a
chiedergli in che cosa consista lo spirito della Resistenza, e con
semplicità risponde: «Il senso della giustizia...». Infine,
insinuo la domanda sul futuro dell’Italia: accenna a un sorriso più
evidente, come a dire: che domande mi fai! Ma non si fa pregare: «C’è
tanta gente innocente», usa proprio questa parola, e un po’ mi
sorprende, e poi, proseguendo, accenna ai giovani «che non fanno
calcoli, ci mettono passione…». Insomma, «tendi all’ottimismo?».
Esita un attimo e annuisce: «Sì, tendo all’ottimismo».
“La Stampa”, 10
aprile 2015
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