La storia dei complicati
processi intellettuali che avvennero in Europa fra la metà del
Quattrocento e la metà del Seicento può servire a renderci
consapevoli del fatto che la razionalità, il rigore logico, la
stessa struttura del sapere scientifico non sono né categorie
perenni dello spirito né dati eterni della storia umana, ma
conquiste storiche, che, come tutte le conquiste, sono suscettibili
di andare perdute. Così ha scritto di recente uno storico del
pensiero scientifico, Paolo Rossi; e mi pare che non vi sia nulla da
obiettare. Il mondo razionale che ora abitiamo è un insieme di
realtà e di false apparenze; comunque, tutta la scienza moderna ha,
lo sappiamo bene, le sue origini torbide nella magia, nell'alchimia,
nell'occultismo, nell'astrologia. Non è detto, dunque, che a queste
origini non si possa tornare, poiché la magia e la tradizione
ermetica (e la visione del mondo e dell'uomo ad esse collegate) non
sono state cancellate dalla storia a opera della rivoluzione
scientifica: sopravvivono in forme diverse e a differenti livelli. E'
possibile, tuttavia, difendersene studiandole o facendone la storia.
La cultura del secolo
XVIII e in particolare l'Illuminismo hanno insegnato che niente può
resistere al potere critico della ragione, nemmeno gli equivoci e le
facili confusioni di idee e di linguaggi. Scriveva Voltaire nel
Dizionario filosofico: “Tutti i padri della Chiesa, senza
eccezione, credettero al potere della magia. La Chiesa condannò
sempre la magia, ma vi credette sempre. E' questo l'equivoco (ma vi
credette sempre) che ha permesso nell'età moderna (che comincia con
l'Umanesimo e il Rinascimento) alle pratiche irrazionali di
confondersi con la trascendenza, i santi, i miracoli, i diavoli, le
liturgie e tutto il noto armamentario della religione cristiana.
Naturalmente la confusione c'è stata anche quando la magia è
diventata un sapere, un momento totalizzante della filosofia del
Rinascimento (ricordiamo Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Heinrich
Cornelius Agrippa, Girolamo Cardano, Marsilio Ficino, Pico della
Mirandola e tanti altri). Certo è difficile per noi definirlo
sapere, quando i fondamenti sui quali esso è costruito sono così
impalpabili e fragili; ma se talvolta l'impalpabilità diventa
costruzione logica e insieme desiderio di riforma dei sistemi
politici e sociali, e sogno di un mondo senza ingiustizie, allora
questa febbre conoscitiva diviene qualcosa di concreto, può essere
la premessa di un pensiero, per dirla con Kant, organizzato nei
limiti della ragione (intendendo per limiti l'opposto di ciò che la
parola suggerisce).
A questo quadro storico
voglio riferirmi per parlare di una confraternita di riformatori
morali e religiosi apparsa agli inizi del Seicento, che maneggiavano
l'alchimia e le scienze segrete e stimolavano gli adepti alla ricerca
e al misticismo. Erano i Fratelli della Rosa-Croce, che ebbero, tra
l'altro, influenza sul ritualismo della Massoneria inglese e
americana del secolo successivo. Pare che i Rosa-Croce esistano
ancora oggi - e non poteva essere altrimenti - negli Stati Uniti.
Dei Rosa-Croce si sono
occupati di recente alcuni storici importanti, prima tra tutti
Frances Yates, studiosa di Giordano Bruno, della tradizione ermetica,
della cabbala e dell'occultismo nell'Inghilterra elisabettiana, che
ha dedicato loro un volume, L'illuminismo dei Rosa-Croce,
tradotto in italiano nel 1976. Venti anni prima era apparsa in
Francia l'opera di Paul Arnold, una ricerca intorno alle complicate,
serie e facete vicende di questa società segreta che, almeno nel
600, si presentò come un vero e proprio rompicapo. Il volume di
Arnold è ora in italiano (Storia dei Rosa-Croce, traduzione
di Giuseppina Bonerba, Bompiani, pagg. 327, lire 30.000) con una
prefazione (e si capisce perché) di Umberto Eco.
Arnold prende le mosse
dalla pubblicazione nel 1614 e nel 1615 a Cassel, in Germania, di due
libelli, Fama e Confessio, manifesti ideologici della
confraternita segreta dei Rosa-Croce, che si richiamavano ai tesori
di conoscenza di un mitico fondatore-eponimo, Christian Rosencreutz
(un nome inventato). Erano testi apocalittici che annunciavano
l'avvento di un nuovo regno di Dio; un evento terribile e imminente
al quale occorreva prepararsi non con vane riforme esteriori, ma
attraverso una rigenerazione interiore. Il punto di partenza dei
manifesti era, in sostanza, questo: “Non sarebbe meglio non doversi
più preoccupare della fame e della miseria, delle malattie e
dell'età? Non sarebbe meglio essere onnipresenti e sapere tutto ciò
che c'è nei libri passati e futuri? Raccogliere pietre e diamanti
invece di sassi, e ordinare agli spiriti invece che comandare alle
bestie? Ebbene, tutti questi prodigi la Confraternita potrà farli
avere a chi è disposto a pagarne il prezzo, a non fare deviare il
suo zelo da nessuna cosa, foss'anche la compassione per i propri
figli: poiché questi beni insperati non possono essere ereditati né
offerti indifferentemente a chiunque”. Insomma, c'erano tutti gli
strumenti per fronteggiare la catastrofe imminente e per trarne tutti
i vantaggi possibili.
Richiamandosi a profezie
medioevali (da Gioacchino da Fiore a Meister Eckert, a Tommaso di
Kempis, a Paracelso e ad altri mistici e filosofi scolastici), i
fondatori della confraternita, Arnold li individua in un gruppo di
luterani tedeschi, con alla testa un giovane filosofo allucinato e
entusiasta, Johann Valentin Andreae tentarono, dice Arnold, usando
una mistificazione, di dar vita ad un movimento di riforma
spirituale, di penitenza e di illuminazione. Se fosse possibile
individuare e svolgere un filo logico nel progetto filosofico dei
Rosa-Croce, esso terminerebbe con la fine di tutte le percezioni
umane, intellettuali e fisiche. Il fratello Rosa-Croce dovrebbe in
definitiva presentarsi a Dio assolutamente ignorante e senza emozioni
carnali (l'individuo ideale sarebbe l'ermafrodito). Solo così si è
nelle condizioni di massima chiarezza e illuminazione intellettuale e
insieme di beatitudine.
Sono evidenti le
infiltrazioni della mistica medioevale e delle filosofie orientali,
con in più l'utilizzazione di tecniche e linguaggi dell'occultismo.
Infatti, lo scopo principale del libro di Arnold mi sembra appunto
quello di limitare la portata e l'originalità dei Rosa-Croce e di
sdrammatizzare lo svolgimento e l'irradiazione nella cultura europea
del secolo XVII della loro dottrina. L'autore nega perciò che possa
esservi un rapporto tra le cabbale dei Rosa-Croce e il pensiero di
filosofi come Cartesio, Comenio, Bacone, Spinoza e Leibniz, anche se
alcuni di loro (Cartesio, soprattutto) conobbero gli scritti dei
Rosa-Croce. Andrebbe però detto che l'equivoco anche qui di tali
possibili rapporti può essere nato per colpa di quegli stessi
filosofi. Per questi motivi il saggio di una esperta come Frances
Yates è interessante anzitutto perché accoglie con maggiore
consapevolezza storiografica lo scetticismo di Arnold, poi perché
utilizza la vicenda dei Rosa-Croce per chiarire aspetti non solo
filosofico-religiosi, ma anche letterari e artistici della cultura
europea del secolo XVII. Ma, pensando a Cartesio, la cui filosofia è
diventata per i moderni il simbolo della chiarezza razionale, non
possiamo ignorare, come scrive Paolo Rossi, che “prima del Discorso
sul metodo egli si dilettava, come avevano fatto tanti maghi del
Cinquecento, della costruzione di automi e di giardini d' ombre e
insisteva, come avevano fatto tanti esponenti del lullismo magico,
sull'unità e l'armonia del cosmo. (...) Sono temi che, in chiave
diversa, ricompaiono anche in Leibniz, nella cui logica confluiscono
i temi attinti alla tradizione del lullismo ermetico e cabalistico”.
Gli apocalittici e
incredibili Rosa-Croce ci portano dunque per vie traverse (traverse
rispetto all'immagine, che non vorremmo smarrire, dei sentieri
ininterrotti della Ragione) ad un Seicento pieno di misteri, di
fictitia, di folletti shakespeariani, ma anche delle macchine
meravigliose della rivoluzione scientifica e della prosa galileiana.
“la Repubblica”, 28
luglio 1989
Nessun commento:
Posta un commento