Tra i miti e le immagini che dalla fanciullezza salgono in noi all’insegna della rivoluzione francese, tenaci anche accanto a quelli piú stimolanti e perciò meno edonistici della rivoluzione russa, proprio al primo possibile incontro dei simboli delle due conquiste cittadino-compagno (la storia dell’Ottocento e del Novecento si può rivedere alla luce di questi due nomi distinti contrastanti, sintetizzati), un posto speciale ha sempre avuto la figura di Gracco Babeuf, il suo gestire misterioso dai fogli del «Tribun du peuple», il suo lucido, impeccabile entusiasmo di agitatore settecentesco e pur piú vicino a una rivolta di utopismo collocabile ben addentro l’Ottocento socialista. In quell’atmosfera di eroismo rigido e fremente in cui i pugnali con cui Babeuf e Darthé tentarono di sottrarsi romanamente al carnefice hanno lo stesso tono classicistico ed assoluto delle illuministiche e plutarchiane esortazioni dette al popolo, durante il processo, il mito del babuvismo, legato al giacobinismo ed ai suoi presupposti settecenteschi e insieme preannuncio delle teorie rigeneratrici socialiste, risalta magnificamente nella sua forza di anticipazione generosa attraverso le pagine di Filippo Buonarroti che Gastone Manacorda, studioso di problemi storico-politici, ha tradotto – mantenendo il gusto di quell’epoca e di quello stile – e presentato per la prima volta in veste italiana. Come Manacorda rileva nella sua nitida introduzione, l’importanza di quest’opera è eccezionale, riunendo in sé la testimonianza diretta di un babuvista sopravvissuto al processo e alla condanna di Vendôme, l’esposizione autorizzata del corpo principale delle dottrine e dei piani degli Eguali, e la personale interpretazione e quasi prosecuzione di un rivoluzionario italiano che mentre scriveva queste pagine agiva insieme per il risorgimento italiano e la causa ideale che oltrepassava le mete di unità nazionale: «Ma religion est l’égalité, ma vie en a été, je crois, le témoignage». Sicché sulla base di un illuminismo fattosi combattivo ed estremista (donde le divergenze non solo di metodo pratico con il romanticissimo Mazzini) una passione ideale ci si apre innanzi documentata, calata in rapide narrazioni di fatti e in piú lunghe esposizioni di teorie, di programmi, accompagnati da proclami, da disposizioni rimaste tanto piú solenni nella loro attuazione pratica. «Sono rimasto convinto che l’eguaglianza da loro vagheggiata, è la sola istituzione idonea a conciliare tutti i veri bisogni, a ben dirigere le passioni utili, a contenere quelle dannose, e a dare alla società una forma libera, felice, pacifica e duratura». Questa è la luce che illumina il libro e che, accompagnandosi con l’illuministica virtú, ne esalta il tono, lo rende rapido, vibrato, messianico. Certo, intuizioni feconde, principî che la storia delle teorie sociali ha ripreso, rendono il libro ricco di spunti teorici nel suo esitare fra utopia e scienza, e giustamente il traduttore sottolinea, specie in base alla esperienza teorico-pratica del marxismo «che non è da utopista l’aver intuito il valore della lotta di classe, la funzione delle dittature rivoluzionarie, l’insufficienza del liberalismo politico basato sulle formule meramente giuridiche della libertà ed eguaglianza, l’importanza politica dell’economia, e tutte le altre cose che a queste scoperte si collegano o ne derivano» (XXI), come certamente l’impulso Mably-Rousseau agisce in Buonarroti e nel babuvismo sia come finalismo idillico sia come vigorosa spinta all’«égalité réelle», e dunque condizione ancora inevitabilmente tra sogno e possibile realizzazione; ma la vita del libro, la sua tensione storica si giustifica soprattutto nella sua natura di esposizione di un fallimento tragico e di una speranza che, nata nel seno di una esperienza coerente, la supera nutrendosi dei suoi fermenti piú decisivi e piú lucidamente estremi. È lí che il libro del Buonarroti, al di là delle precisazioni importantissime per lo storico della congiura, acquista il suo interesse piú vasto e piú profondo: proprio nel suo incontro di episodio della grande rivoluzione laterale rispetto alla sua attuazione borghese e centrale, rispetto alle ideologie illuministiche, e di anticipazione della speranza socialista nel suo passare da utopia a volontà di liberazione del quarto stato. Fuori dell’ansia di concreto del romanticismo, teso al trionfo piú puro della «raison», il libro della congiura nei suoi limiti del resto coerenti alla simmetria utopistica (fino alle cose disposte con ordine geometrico «per il piacere dell’occhio e per rendere piú agevole il mantenimento dell’ordine pubblico») vive come l’esaltazione del babuvismo quale logica eredità della rivoluzione nel suo lato piú coerente, robesperriano, e quale totale novità inscritta in un movimento in cui la proprietà era garanzia di libertà. L’accordo e l’assurda derivazione puramente ideale ed astratta si realizza soprattutto in un tono morale, nel rigido eroico culto della virtú che ben legava l’«incorruttibile» e il generoso Babeuf e contro cui praticamente insorgeva come sanguigna realtà la classe borghese con la sua economia, con il suo costume che dopo la lotta antifeudale veniva per forza di cose facendosi imperialista e reazionario. Un aspro gusto tra conventuale e rousseauiano («Si vede che dal raffinamento delle arti nasce il gusto del superfluo, il disgusto dei costumi semplici, l’amore della mollezza e delle frivolezze»), una mistica tra fanatica e balda, creano un’atmosfera di tensione eroica e profetica che non è piú solo il frutto del sogno di un solitario:
Point de luxe, point de misère! La sainte et douce égalité remplit la terre et la féconde: dans ces jours de félicité, le soleil luit pour tout le monde. E la riprova di morte e di dolore cui Buonarroti orgogliosamente si richiama bene indica la presenza di una fede e di una volontà attuatrice. I termini sono tra idillio e classicismo, felicità e virtú, ma la rivolta ad una falsa eguaglianza, ad una libertà del privilegio porta l’impeto di parole che piú tardi incendieranno il cuore di uomini generosi, di moltitudini avide di vita: «Si ponga termine a questo enorme scandalo che i nostri nipoti non vorranno credere! Sparite alfine, abominevoli distinzioni di ricchi e poveri, di grandi epiccoli, di padroni e servi, di governanti e governati». |
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