15.2.12

Giulio Cesare. Il "libro nero" della conquista della Gallia (di Luciano Canfora)

Un "libro nero" della conquista romana della Gallia lo scrisse Plinio il Vecchio. Nel settimo libro della Storia naturale (91-99). E’ un "libro nero" - per usare un 'espressione ora in voga - di straordinaria durezza. Vengono lì messi a paragone i crimini di Cesare con il ben diverso bilancio della lunga carriera politico-militare di Pompeo. Senza contare i moltissimi morti causati dalla guerra civile, provocata da Cesare col passaggio del Rubicone, quattro anni di efferata guerra fratricida dovuta all'ambizione di un uomo, senza procedere dunque a questa contabilità relativa al conflitto civile, bisogna ricordare - scrive Plinio - il milione e 200.000 morti massacrati da Cesare al solo fine di conquistare la Gallia.
«Io non posso porre - dice Plinio - tra i suoi titoli di gloria un così grave oltraggio da lui arrecato al genere umano».
E accusa Cesare di avere per giunta occultato le cifre del grande massacro: «non rivelando l'entità del massacro causato dalle guerre civili, Cesare ha riconosciuto l'enormità del suo crimine» (VII, 92). Storici più compiacenti, come Velleio Patercolo, parlano di 400.000 morti in Gallia e altrettanti e più prigionieri (II, 47,1 ). Plutarco conosce la cifra "tonda" di un milione di vittime e un milione di prigionieri (Pompeo 67,10; Cesare 15, 5). E nella vita di Catone minore parla di 300.000 Germani uccisi (51,1). Appiano, nei frammenti del Libro celtico (1, 12), racconta di 400.000 morti soltanto nella campagna contro gli Usipeti e Tencterii (55 a.C.).
In Plutarco non vi è peraltro alcun accento critico quando vengono fornite quelle cifre. Al contrario esse sono parte essenziale di un raffronto tra Cesare e tutti gli altri condottieri romani, a tutto vantaggio di Cesare. E quei massacri e quelle masse sterminate di prigionieri sono - per il biografo greco - indizio di maggiore grandezza. E in Plinio che si manifesta, con toni di forte indignazione, la condanna morale nei confronti del crimine cesariano, dell' offesa - come egli dice - all'umanità. Cesare stesso peraltro non aveva avuto, su questo punto, un atteggiamento occultatore. Ecco, per fare un solo esempio, come narra la carneficina dei Belgi in fuga: «Fu massacrata tanta moltitudine di nemici quanta fu la durata del giorno. Al tramonto del sole i soldati smisero d'inseguire e si ritirano, sì come era l'ordine, negli accampamenti». Commenta, con eccesso di estetismo, Concetto Marchesi: «Si vede più la giornata di sole che la giornata di sangue: e quei soldati che si ritirano al tramonto nella quiete dei loro accampamenti, dopo aver massacrato tanti uomini, paiono piuttosto campagnoli stanchi che tornino di sera al loro villaggio».
La Gallia, il mondo celtico, fu, così, immessa, con la violenza e il genocidio, nel circuito della "civiltà" romana. Solo un Napoleone III poteva, al tempo stesso, esaltare Cesare (e quasi identificarsi con lui) e innalzare monumenti a Vercingetorige. La reazione, e la denuncia della perdita umana e di civiltà rappresentata da questo genocidio, è dovuta, tra gli altri, al maggiore storico della Gallia, Camille Jullian, il quale ha posto l’accento sullo sviluppo autonomo della civiltà celtica stroncato dalla conquista cesariana. E una conferma è venuta dai recenti scavi di Bibracte. Non è un modo di inventarsi un'"altra storia" che non ci fu: è solo un modo di guardarsi dal declassare la storia della conquista romana a peana sulla fatalità dell'imperialismo. Su questo terreno cesariani e avversari si trovano d'accordo. A ogni comunicazione del proconsole sulle sue sanguinose vittorie, il Senato concorde decretava giorni e giorni di supplicatio. Quando ricorda, alla fine del secondo commentario, i quindici giorni di supplicatio decretati dal Senato dopo le vittorie sui Bellovaci, Cesare precisa compiaciuto: «quod ante id tempus accidit nulli» (II, 35, 4). E dopo il massacro di Usipeti e Tencterii i giorni di supplicatio furono venti (VI, 38, 5). Prova dell'entusiasmo consenziente dei senatori: le masse di schiavi immesse così sul mercato facevano gola indistintamente a cesariani e a lealisti-repubblicani. Le sortite come quella di Catone, il quale, opponendosi alla supplicatio dopo la vittoria su Usipeti e Tencterii, propose di consegnare Cesare nelle loro mani come spergiuro (la vittoria era stata conseguita col tradimento: evidentemente ai "barbari" si poteva non accreditare la percezione del senso dell'onore e della lealtà, così come i conquistadores spagnoli escludevano che gli indigeni d'America disponessero di un 'anima), sono piuttosto il frutto dell'inconciliabile avversione politica di Catone, capace anche di esprimersi attraverso il paradosso (Plutarco, Cesare 22,4; Catone minore 51). Ciò apparve chiaro dal seguito della vicenda: Cesare reagì con una lettera violentissima contro Catone, e Catone ne approfittò per sferrare un attacco contro Cesare in Senato, ruotante intorno al motivo: «ben più dei figli dei Britanni e dei Celti dovete temere Cesare». Naturalmente la romanizzazione della Gallia è fenomeno di tali proporzioni storiche da imporre la domanda se la contabilità dei morti proposta da Plinio con estrema chiarezza (e con l'accusa bruciante a Cesare di aver nascosto le cifre) non debba tuttavia cedere il passo, in sede di bilancio storico, a quello che può considerarsi l'evento cruciale nella formazione dell'Europa medievale e poi moderna: la romanizzazione dei Celti, dovuta appunto alla conquista cesariana.
Anche a proposito della feroce conquista del Nuovo Mondo, dovuta alla convergente azione di conquistadores e missionari, da parte della vecchia Europa, sorse, e non è ancora spenta, la questione del costo umano. Né è mancato qualche tentativo di "libro nero". Per lo più svilito con l'argomento della necessità storica di quella conquista. Peraltro, ancora oggi è considerata possibile la domanda «che storia avremmo avuto senza Pizarro», non però l’altra «che Europa avremmo avuto senza Giulio Cesare».

da Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, 1999

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