La collaborazione di Umberto Eco al “manifesto” con lo pseudonimo di Dedalus cominciò il 5 maggio 1971, una settimana dopo la nascita del quotidiano, con un articolo dal titolo Come la stampa borghese intreccia la bugia all’informazione, si concluse il 2 marzo 1975 con l’articolo A proposito dell’omosessualità. Poche parole sommesse ma non represse. Di quella sua collaborazione Eco, l’unico vero “tuttologo” della cultura italiana, ha ragionato con Valentino Parlato il 28 aprile 2011, in occasione del quarantennale del giornale comunista. Dall’intervista riprendo le prime risposte. (S.L.L.)
E’ venuto Pintor a casa mia e me l'ha chiesto e poiché era tanto simpatico gli ho detto di sì. Ma c'era un'altra ragione. C'era una situazione tipica di una certa sinistra di allora, anche di quella di antiche origini cattoliche come la mia, che non riusciva a identificarsi col Partito comunista italiano. Specie noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana, con la sua idea di intellettuale organico che non era compatibile, tanto per fare un esempio, con gli eretici come Vittorini, diffidente verso tante nuove tendenze culturali emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su “Rinascita” per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall'intellighentia del Pci. Mi viene da citare l'attacco dell'allora marxista Massimo Pini, poi finito in An, e un personaggio francese che scrisse «ma cosa diavolo racconta questo Umberto Eco: da un punto di vista marxista lo strutturalismo è inaccettabile». Questo signore si chiamava Althusser e due anni dopo avrebbe tentato il suo celebre connubio tra marxismo e strutturalismo. C'era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra senza stare con il Pci. All'epoca l'unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con “il manifesto”: l'unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci, anche se non era più quello togliattiano che accusava di decadentismo Visconti perché aveva girato Senso ma ove tuttavia le sperimentazioni erano ancora accolte con diffidenza. Tanto per fare un esempio, nel 1962 Vittorini pubblicava “il Menabò” numero 5, quello dedicato a industria e letteratura, ma proponendo un nuovo modo di intendere l'espressione «letteratura e industria», focalizzando l'attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti più che lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio Sul modo di formare come impegno sulla realtà apparivano prove narrative molto 'sperimentali' di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo. Perciò accettai la proposta di Pintor; ma poiché avevo un contratto per la terza pagina del “Corriere della sera” non potevo mettere la stessa firma su due quotidiani e scelsi di firmare Dedalus…
Mi sono divertito come un pazzo a scrivere i pezzi di Dedalus. Ricordo che un po' di anni dopo Fanfani mi incontrò, agitando la mano e facendo, garbatamente, finta di volermi picchiare. La ragione? Qualche tempo prima sul “manifesto” avevo scritto: «L'onorevole Fanfani, passeggiando nervosamente sotto il letto...». Altra polemica con Montanelli quando, attaccando la Cederna, aveva scritto che «annusa l'afrore degli anarchici sotto le ascelle». Scrissi: «una volta i polemisti portavano la penna all'altezza del cuore; tu, Indro, sei sceso molto più in basso». Poi Montanelli mi mandò un suo libro con la dedica: «In memoria di un colpo basso». Era un uomo di spirito.
“il manifesto” 28.04. 2011
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