15.2.12

Profilo di Philip Roth (di Francesca Borrelli)

Il 19 aprile del 2007 su “il manifesto” Francesca Borrelli, in occasione dell’assegnazione a Philip Roth del premio Grinzane-Masters, tracciava un profilo dello scrittore, a mio avviso tra i maggiori viventi. Ne riprendo qui uno stralcio. (S.L.L.)
Philip Roth
La rivolta di Zuckerman
Quando Philip Roth decise di confidarsi pubblicamente con se stesso, vale a dire con il suo alter ego Nathan Zucherman, parlò di sé come di un uomo schivo e tuttavia non del tutto alieno dalle pubbliche apparizioni. «Diciamo che fra i due estremi compresi tra l'aggressivo esibizionismo di Mailer e la maniacale ritrosia di Salinger, io occupo una posizione mediana: cerco cioè di non pavoneggiarmi nella pubblica arena e di rintuzzare la gratuita curiosità della gente, senza però fare della riservatezza un feticcio sacro e inviolabile.» Era la primavera del 1987 e lo scrittore americano usciva malamente da una operazione trascurabile, la cui convalescenza si era protratta oltre ogni previsione, riducendolo al fantasma depresso di se stesso: un uomo vulnerabile e vagolante nel caos mentale che lo faceva oscillare tra attacchi di panico e tentazioni suicide. Questo, almeno, è quanto scrive nei Fatti, la sua pretesa autobiografia nata, appunto, dall'esigenza di riprendere il controllo della sua vita, e il cui manoscritto aveva immaginato di indirizzare a Zuckerman perché vagliasse se gli conveniva pubblicarlo o no.
Si diceva, allora, «stufo di maschere e travestimenti, contraffazioni e menzogne»: era venuto il momento di offrirsi in tutta la trasparenza che il suo inconscio gli consentiva. Ma il suo alter ego, sollecitato a essere franco, non si faceva pregare, e dopo avergli somministrato una serie di reprimende sui passaggi più disdicevoli dei suoi racconti di vita, cercava di dissuaderlo dal pubblicare quella autobiografia, e gli notificava che meglio avrebbe fatto a riprendere l'invenzione di storie che avessero lui, Nathan, come protagonista: «scommetto che hai scritto tante di quelle metamorfosi di te stesso da non sapere più chi sei e chi sei stato. Ormai non sei altro che un testo ambulante.» Per confrontarti con te stesso, proseguiva, ti conviene servirti ancora di me. Quell'anno dovette imporsi ai ricordi di Philip Roth come un anno del tutto speciale, perché vi ambientò, poi, uno dei suoi romanzi più vulcanici, facendolo precedere da una avvertenza nella quale chiariva come si fosse trovato coinvolto, suo malgrado, in una operazione di controspionaggio per il Mossad, il servizio segreto israeliano. Introdotto da pagine che tornano a ricapitolare il suo collasso emotivo - dove si descriveva come «un che di forsennatamente maniacale, repellente, angosciato, odioso, allucinante, la cui esistenza è un solo lungo tremito» - Operazione Shylock era dedicato alla sua compagna di allora, Claire Bloom, l'attrice che Chaplin rese celebre in Luci della ribalta e che figura nel libro come la sua fedele consigliera, le cui raccomandazioni vengono puntualmente disattese. Ciò che Philip Roth non avrebbe dovuto fare è cedere alla curiosità, alla tentazione, e in definitiva alle sue istanze paranoiche, per mettersi sulle tracce di quello che aveva scoperto essere un suo sosia. Ma lui lo fece. Il libro racconta, appunto, il reciproco pedinamento dei due Philip Roth, entrambi confluiti a Gerusalemme, dove l'impostore si serve della celebrità acquisita dallo scrittore per diffondere la sua causa, ossia una diaspora che da Israele riporti in Europa tutti gli ebrei askhenaziti, che verrebbero così ricongiunti ai loro luoghi di origine e salvati dal secondo Olocausto: inevitabile conseguenza - a suo dire - del fallimento politico e ideologico del sionismo.
Al suo sosia Philip Roth regala una coscienza politica, per quanto scellerata, la cui latitanza evidentemente si rimprovera; e gli mette in bocca parole che gli rinfacciano l'individualismo di ogni scrittore: «Philip, nessuno potrebbe apprezzare i tuoi libri più di me. Ma siamo a un punto della storia ebraica in cui forse c'è qualcosa di più dei tuoi libri di cui dovremmo parlare». Tra quelle pagine, inoltre, Roth aveva seminato una sintesi di tutto ciò che più gli piace degli ebrei, che notoriamente gli piacciono poco. «Scetticismo verso le cose terrene. Affascinante verbosità. Passione intellettuale. L'odio. Le menzogne. La diffidenza. La mondanità. La sincerità. L'intelligenza. La malizia. La comicità. La resistenza. L'istrionismo. La ferita. La menomazione». Questi e altri attributi, insieme a tutte le virtù che non ha coltivato, tutti i vizi che ha nutrito, tutte le idiosincrasie nelle quali si è crogiolato, lo scrittore americano li ha proiettati sui suoi personaggi, spesso enfatizzandoli oltre ogni misura; così che, a volte, sembra insidiato dalla minaccia che quegli stessi suoi alter-ego - tutti gli Zuckerman, i Kepesh, i Tarnopol, i Portnoy - si sollevino dalla carta dei libri, trasformino l'inchiostro in sangue, prendano corpo e schizzino fuori dalle architetture dei suoi romanzi per vendicarsi di tanto impertinenti fantasie. A proposito delle quali, Philip Roth è davvero, superlativamente incontenibile.

Scherzi dell'immaginazione
In un lungo racconto che fin dal titolo lascia prevedere in quali eccessi vada comicamente a parare, si esibisce nella sua personale variazione della metamorfosi kafkiana e immagina di trasformarsi in una enorme, femminile mammella. Tutto comincia con un innocuo formicolio all'inguine dell'invidiato personaggio di nome David Kepesh, e finisce con la dilatazione del suo metro e ottanta di statura in una ovoidale massa di tessuto adiposo, sormontata da un roseo capezzolo. Nessuna occasione è migliore per osservare come la parola si sia fatta carne.
Dev'essere stato, questo del racconto titolato Il seno, una sorta di vertice fantastico in una parabola narrativa i cui deliri erotici non erano stati ancora del tutto gratificati. Fin dagli esordi, infatti, Philip Roth aveva legato la sua fama alle peripezie mentali di un ragazzo erotomane e ipocondriaco, che nel Lamento di Portnoy sfoga - in un incontenibile monologo indirizzato al suo analista - le frustrazioni di una vita passata a inseguire, lui ebreo e vergognoso delle sue origini, ragazze «gentili» sulle quali ha sistematicamente riversato smodate esigenze sessuali. «Dottore, forse gli altri pazienti sognano le cose...a me succedono. Ho una vita senza contenuti latenti... Dottore: non riuscivo a farmelo rizzare nello Stato di Israele! Che ne dice di questo simbolismo, bubi?»
Nemmeno l'ipocondria, laddove esplode fino a rendersi protagonista della trama, come avviene nella Lezione di anatomia, riesce a domare le bramosie del prediletto Zuckerman. Estenuato da un dolore la cui origine resterà un mistero, Nathan decide di diventare lui stesso medico, non prima di essersi spacciato per l'editore di una rivista pornografica, e avere adeguatamente scandalizzato i suoi interlocutori occasionali, ai quali non manca di presentarsi con il nome del critico letterario che ha stroncato il suo ultimo libro: onde loro associno tutte le sconcezze che ha seminato nel suo eloquio al nome di quell'odiato recensore. Non contento di avere rintronato anche la sua povera autista, mentre quella tenta disperatamente di concentrarsi sulla guida, lui esplode a sua maggior gloria nella seguente dichiarazione: «Io sono stato crocifisso sulla croce del sesso: sono un martire sulla croce del sesso».
Di tutt'altra estrazione sociale, ma di non dissimili fantasie sarà dotato, oltre dieci anni dopo, il protagonista del Teatro di Sabbath, un ex burattinaio ebreo piccolo e tarchiato, che già da giovane aveva «qualcosa di magicamente fuori dalla norma». Tra pagine in cui i personaggi vanno e vengono dall'al di là, Mickey Sabbath invoca nel suo vernacolo scatologico «che attinge direttamente dalla fogna» la memoria della sua amante slava. E sdilinquendosi nelle fantasie di quei perduti amplessi si allunga, corto com'è, sulla terra che copre la bara di lei: «Oh Drenka, lurida e meravigliosa figa, sposami!»
Vuoi a causa di una manifesta ipocondria, vuoi perché in preda alle smanie del desiderio, vuoi perché dominati da tendenze paranoidi, i personaggi di Philip Roth si spingono volentieri ai bordi della follia, paventano la frammentazione del proprio Io, tentano di tenerlo a bada e tutto sommato ci riescono. Le sue pagine migliori sono forse quelle dove comanda il sarcasmo, dunque quelle dove tornano a ripresentarsi le sue personali ossessioni - lo stereotipo dell'ebreo piccolo borghese, la cupidigia sessuale, il terrore della malattia e della morte; eppure, con Pastorale americana si inaugurava - ormai dieci anni fa - una stagione narrativa tra le sue più felici, che pur non chiudendo del tutto quelle vene vi attingeva con molta maggiore parsimonia. A dimostrazione, laddove qualcuno ne avesse dubitato, che il talento di Philip Roth non risalta solo in virtù dei suoi eccessi.
Quello che molti considerano il suo capolavoro, dunque, Pastorale americana è affidato ancora una volta alla voce narrante di Nathan Zuckerman, che ricostruisce la vita di un ex compagno di scuola a mala pena avvicinato, a suo tempo, tanta era la soggezione provocata dalla prepotenza delle sue qualità. Quando i due si rincontrano, Nathan è tediato dalla sicurezza dell'altro che tutti chiamano lo Svedese, immagina la sua famiglia felicemente qualunquista, osserva come quell'uomo sembri non essere nemmeno «incrinato dal pensiero».
Niente di più sbagliato, quello stesso uomo, in realtà, è tormentato dalla responsabilità di una figlia che nel 1969, in piena guerra del Vietnam, ha interpretato la sua protesta politica facendo scoppiare una bomba e uccidendo, così, un passante. «La gente pensa che la storia abbia il respiro lungo, ma la storia in realtà, ti si para davanti all'improvviso», commenta Zuckerman.

La molla è nel risentimento
Appena un anno dopo, un altro romanzo magistrale, Ho sposato un comunista, descrive l'America del maccartismo: il titolo del libro è ricalcato su quello che la protagonista femminile, l'ex diva Eva Frame, ha dato alle sue memorie del matrimonio con Ira Ringold, attore radiofonico di umili trascorsi ma soprattutto simpatizzante comunista di cui, ancora una volta, è Zuckerman a ritessere le vicende.
Con la chiusura della trilogia, affidata al romanzo titolato La macchia umana, piombiamo nel cuore del feuilleton che ha visto protagonisti Clinton e Monica Lewinsky; ma non è che lo sfondo. La scena principale è occupata da un ex docente universitario costretto a lasciare la sua cattedra in ragione di una pretestuosa accusa di razzismo. Nel raccogliere la rabbia di Coleman, nel ripercorrere la sua vita che è già di per sé intricata quanto un romanzo, Nathan Zuckerman scopre che gli è diventata «più cara della sua»: è la vita di un uomo che nasconde antenati di colore ai quali deve una origine cui non si vuole rassegnare: «Tu ragioni come un prigioniero», gli dice la madre, «sei bianco come la neve e ragioni come uno schiavo». Sta nel risentimento, infatti, la molla della sua esistenza.

L'epopea di uno qualunque
Tutti gli ultimi romanzi di Roth cominciano dalla fine, quando ormai i suoi protagonisti sono morti, e ripercorrono a ritroso, sebbene la freccia del tempo conosca numerose deviazioni, le vicende che costuiranno la trama; una trama alla quale l'ultimo, Everyman, rinuncia, spogliandosi delle digressioni, delle storie parallele, dell'inventiva stessa che ha animato i suoi libri più noti. Solo l'ambientazione, ostinatamente ancorata al New Jersey, rimane inalterata, per il resto tutto si risolve in un lungo, ponderato avvicinamento alla vecchiaia e alle sue malinconie, scandito dalla sequenza delle molte operazioni che hanno aggredito il corpo di questo ex pubblicitario. Uno di noi, e insieme l'eco di un personaggio letterario che certamente Roth conservava nella sua memoria, visto che in Pastorale gli aveva dedicato una dilazione, quasi rabbiosa: è l'Ivan Il'ic di Tolstoj, «così sminuito dall'autore nel malevolo racconto in cui spiega crudelmente, in termini clinici, cosa significa essere persone qualunque.»

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