28.2.12

Un prete calcolatore e i suoi giochi. Giammaria Ortes (di Italo Calvino)

C'era un uomo che voleva calcolare tutto. Piaceri, dolori, virtù, vizi, verità, errori: per ogni aspetto del sentire e dell' agire umani quest' uomo era convinto di poter stabilire una formula algebrica e un sistema di quantificazione numerica. Combatteva il disordine dell' esistenza e l' indeterminatezza del pensiero con l' arma dell'"esattezza geometrica", cioè d' uno stile intellettuale tutto contrapposizioni nette e conseguenze logiche irrefutabili. Il desiderio del piacere e il timore della forza erano per lui le sole certezze da cui partire per addentrarsi nella conoscenza del mondo umano: solo per questa via poteva arrivare a stabilire che anche valori quali la giustizia e l' abnegazione avevano qualche fondamento. Il mondo era un meccanismo di forze spietate:"il valore delle opinioni son le ricchezze, essendo manifesto che queste permutano e comprano le opinioni"; "l' Uomo è un fusto d'ossa legate insieme per via di tendini, di muscoli e d' altre membrane".
E' naturale che l' autore di queste massime sia vissuto nel Settecento. Dall' uomo-macchina di Lamettrie al trionfo della crudele voluttà della Natura in Sade, lo spirito del secolo non conosce mezze misure nello smentire ogni visione provvidenziale dell' uomo e del mondo. Ed è naturale anche che sia vissuto a Venezia: la Serenissima nel suo lento tramonto si sentiva più che mai presa nel gioco schiacciante delle grandi potenze, ossessionata dai profitti e dalle perdite dei bilanci dei suoi traffici; e più che mai immersa nel suo edonismo, nelle sue sale da gioco, nei suoi teatri, nelle sue feste. Quale luogo poteva dare più suggestioni a un uomo che voleva calcolare tutto? Egli si sentiva chiamato a escogitare il sistema per vincere a "faraone", così come a trovare il giusto dosaggio delle passioni in un melodramma; e pure a discettare sull' ingerenza del governo nell' economia dei privati e sulla ricchezza e povertà delle nazioni. Ma il personaggio di cui stiamo parlando non era un libertino nella dottrina come Helvètius nè tantomeno come Casanova nella pratica, e non era nemmeno un riformatore che si batteva per il progresso dei Lumi, come i suoi contemporanei milanesi del Caffè. Giammaria Ortes, così si chiamava, era un prete secco e scorbutico, che opponeva la spigolosa corazza della sua logica ai preannunci di terremoto che serpeggiavano per l' Europa e che si ripercuotevano anche nelle fondamenta della sua Venezia.
Pessimista come Hobbes, paradossale come Mandeville, ragionatore perentorio e scrittore asciutto e amaro, non lascia, a leggerlo, ombra di dubbio sulla sua collocazione tra i più disincantati assertori della Ragione con l'erre maiuscola; e dobbiamo fare un certo sforzo per accettare gli altri dati che i biografi e i conoscitori dell'intera sua opera ci forniscono, sulla sua intransigenza in materia di fede e d'ortodossia religiosa e sul suo sostanziale conservatorismo. E questo insegni a fidarci delle idee ricevute e dei clichès: quali l' immagine d'un Settecento in cui si fronteggiano una religiosità tutta pathos e una razionalità fredda e miscredente; la realtà è sempre più sfaccettata e gli stessi elementi si ritrovano combinati e assortiti nei più vari accostamenti. Dietro la visione più macchinale e matematica della natura umana può ben esserci il pessimismo cattolico sulle cose terrene: le forme esatte e cristalline prendono evidenza dalla polvere e ritornano alla polvere.
Oggi le edizioni Costa & Nolan di Genova, nella stimolante collana di "Testi della cultura italiana" diretta da Edoardo Sanguineti, pubblicano una raccolta di testi dello Ortes, Calcolo sopra le verità dell'istoria e altri scritti, a cura di Bartolo Anglani (pagg. 220, lire 20.000). Con questi testi, e con le Riflessioni di un filosofo americano che erano state riportate alla luce nel 1961 per la Universale Einaudi da Gianfranco Torcellan, primo riscopritore del bizzarro pensatore veneziano, credo che tutta l'opera significativa di Giammaria Ortes sia ora a nostra disposizione. Calcoli chiamava Ortes i suoi saggi: Calcolo de' piaceri e de' dolori della vita umana, Calcolo sopra il valore delle opinioni umane, ma il solo che si presenta particolarmente irto di cifre è il Calcolo sopra i giochi della Bassetta e del Faraone. Questi giochi di carte molto diffusi nelle sale da gioco veneziane del Settecento sono ora dimenticati, e l'editore bene ha fatto a chiedere a Giampaolo Dossena un saggio che figura in appendice, in cui l'inesauribile ludologo mette in opera tutta la sua gaia erudizione e il suo talento logico per ricostruire le regole delle partite.
Un altro testo di Ortes che richiede glosse erudite (quali quelle che Bartolo Anglani offre nelle note) ma che è del resto tra i più leggibili e godibili, s' intitola Riflessioni sopra i drammi per musica. Qui l'esattezza geometrica del metodo ortesiano è applicata alle simmetrie e ai ribaltamenti dei libretti da melodramma. Il saggio, che si apre con una caratterizzazione di quattro popoli e dei loro teatri: francese, tedesco, inglese, italiano (con inattese analogie tra il primo e il secondo e tra il terzo e il quarto), contiene osservazioni vivissime sul costume teatrale ed esprime esigenze molto precise d' un intenditore sia in campo musicale che d' azione drammatica. Troppo incompetente per mettere bocca in questo campo dove ci sono tanti esperti gelosi e agguerriti, sono purtuttavia contento che una delle opere che Ortes cita a modello sia la Dori del Cesti, famosissima nel Seicento e Settecento e poi dimenticata per più di due secoli, fino a che non è stata ripresa l' anno scorso a Londra per iniziativa dello scenografo Adam Pollock, appassionato riesumatore del melodramma barocco, e replicata lo scorso agosto nel convento di Batignano dove ho avuto la fortuna di vederla e sentirla. E devo dire che come congegno drammmatico-musicale che possa soddisfare un maniaco del calcolo e della geometria, non se ne può immaginare migliore.
Nel mio saggio introduttivo che apre il volume, osservo che non a caso Ortes appartiene a un secolo teatrale, e alla città teatrale per eccellenza. Venezia era allora più che mai un palcoscenico ideale per personaggi eccentrici, un caleidoscopio di caratteri goldoniani: questo prete misantropo e ossessionato dall'aritmomania, che un disegno dell' epoca ritrae compostamente imparruccato, con un mento aguzzo e un sorrisetto un po' stizzoso, possiamo ben immaginarcelo entrare in scena con l'aria di chi è abituato a trattare con gente che non vuol capire ciò che per lui è tanto semplice, e tuttavia non rinuncia a dir la sua e a commiserare gli errori altrui, per poi allontanarsi in fondo al campiello, scrollando il capo.
Nel suo programmatico edonismo, Ortes non si nasconde che ogni bene perseguito dagli uomini è relativo e insicuro, ma forse il meno incerto di tutti è il "divertimento", che la civiltà veneziana sapeva mettere al centro della vita sociale. E qui si vede quanto l' esperienza empirica più che la ragione matematizzante sia il fondamento delle riflessioni dell' autore. "Ogni divertimento consiste in un movimento diverso che si riceve nell' organo del senso. Il piacere nasce da quella diversità di movimento, come la noia dalla continuazione di esso. Così uno che si prefigga di dar un piacere che sorpassi le tre ore sia certo di dar una noia".
Forse lo svago della musica e dello spettacolo, e le emozioni e speranze del giocatore sono gli unici piaceri non illusori. Per il resto, un fondo di relativismo malinconico traspare dietro tutte le certezze. Il Calcolo de' piaceri e de' dolori della vita umana si chiude su queste parole: "Se esse dottrine si credono tornare a scorno della specie umana, io stesso mi trovo di questa specie senza dolermene; e se concludo che tutti i dolori e i piaceri di questa vita non son che illusioni, posso aggiungere che tutti i raziocinj umani non son che follie. Quando poi dico tutti, non eccettuo i miei calcoli".

“la Repubblica” 30 maggio 1984

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