Leopoldo Fregoli (1867 - 1936) |
Sei un Fregoli! Detto così, sembra un punto esclamativo scagliato nella polpa di un cuore ambiguo. Fregoli sinonimo di trasformista e di voltagabbana. Ce ne sono stati, ce ne saranno: e basteranno i politici ad autenticare l'odiosità del concetto. Di sicuro Leopoldo Fregoli non immaginava di trasformarsi in un sostantivo ingiurioso, così come non avrebbe mai previsto che il suo nome avrebbe connotato un disturbo mentale, la «sindrome di Fregoli», cioè la difficoltà di riconoscere le persone che ci sono accanto. Frequentava altri pianeti e creava altri stupori.
Era un uomo-fabbrica, un abbaglio vivente, un moltiplicatore d'inganni. Era l'Uno e il Centomila su cui Pirandello distillava i suoi rovelli metafisici. Ed era l'artista che, dal 1890 al 1925, ha portato nel mondo l'arte del trasformismo. Che cosa fosse quell'arte, e come lui l'abbia affinata fino all'incredibile, lo spiegò nel libro Fregoli raccontato da Fregoli, appena ristampato dalle Florence Art Edizioni e preceduto da uno scritto di Arturo Brachetti, che di Fregoli è l'erede più grande (pagg. 313, euro 35). L'autobiografia può peccare di autoindulgenza. Ma importa qualcosa? Quel che conta e' rimettersi sulle tracce di un artista autenticamente rivoluzionario, predestinato all'arte come un cannocchiale alle stelle.
Era nato a Roma nel 1867. Ragazzo del popolo, non amava studiare nè lavorare. Quando andò a fare l'apprendista operaio in un'officina meccanica passava dinanzi a una filodrammatica che lo attraeva infinitamente più della forgia. Aveva sedici anni, ma ottenne di farne parte. Pensava di poter recitare, cantare, ballare. Cantava con una voce che dal baritono slittava al soprano. Il padre lo strapazzava, non aveva fiducia nel talento del figlio e cercava di convincerlo ad abbandonare le fanfaluche, soprattutto dopo che Leopoldo aveva trovato un posto nelle ferrovie. Un giorno una signorina bionda e dall'aria perbene chiese alla portinaia del palazzo di via Crociferi 44 dove abitassero i Fregoli. «Al quinto piano». La signorina salì le rampe e al capofamiglia disse: «Suo figlio è un infame... mi ha sedotta... voglio che compia il suo dovere». Potete immaginare il poveruomo. Quando la sua ira fu al colmo, oplà! La signorina si tolse vestito e parrucca. Era Leopoldo, che col suo travestimento era riuscito a ingannare il genitore. Davvero non poteva fare l'attore?
Piccole esibizioni nei caffè-concerto: canzoni, numeri di illusionismo. Poi la guerra d'Africa. E qui fu la svolta. Per intrattenere i soldati, a Massaua fu costruito un teatro a cielo aperto, il Regina Margherita, e Fregoli s'incaricò di dare spettacolo. Tutto andò per il meglio fino a quando non scoppiarono i disordini dell'Asmara e gli attori dovettero lasciare il varieta' e imbracciare il moschetto. Fregoli rimase solo. Il Regina Margherita doveva chiudere. Ma ecco l'idea: avrebbe fatto spettacolo da solo e eseguito lui tutte le parti, quattro o cinque figure che entrassero in scena ogni volta diverse nell'abbigliamento e nella voce. Insomma, un camaleonte e Camaleonte fu il titolo dello spettacolo. Tornato dalla guerra, Fregoli fondo' la Compagnia di Varieta' Internazionale di cui lui, col tempo, divenne l'unica star («In scena Fregoli dev'essere solo!») e parti' alla conquista dei teatri. Europa, le due Americhe, la Russia. Non c'era piazza che lui non espugnasse, non c'erano sovrani e papi che non s'interessassero alla sua arte. Fregoli era un dio del trasformismo, guadagnava soldi a cappellate, viaggiava con duecento cassoni, trecento parrucche, mezzo migliaio di abiti. Ogni sera con le sue 60-70 trasformazioni offriva l'incredibile. Poteva essere come tutti, ma nessuno poteva essere come lui. Era unico per il fatto che, con l'abito, portava in scena un nuovo personaggio diversissimo dal precedente. Il segreto era qui. L'arte di Fregoli si fondava sui particolari e si realizzava dietro le quinte con una tranquilla ma infallibile ingegneria di movimenti. Ed era un'arte in continua evoluzione, culminata con l'invenzione del «Fregoligraph», un apparecchio per le riprese cinematografiche con le quali Fregoli interagiva, inventando il doppiaggio venticinque anni prima del sonoro. Nascosto in quinta, sincronizzava le parole con il labiale dei personaggi sullo schermo. A quel punto anche i futuristi, fanatici della simultaneità, ebbero il loro idolo. Ma un giorno, dopo «diecimila rappresentazioni» e dopo «un milione almeno di travestimenti», Fregoli decise di ritirarsi. Si rifugiò a Viareggio. Nel calmo ritmo della vita nuova, dettò anche l'epitaffio per la propria tomba: «Qui Leopoldo Fregoli compì la sua ultima trasformazione». Previdente? No, coerente.
“La Stampa”, 30-03-2007
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