Recensione del Meridiano Mondadori che raccoglie alcune delle opere cosiddette "minori" di Dante, il pezzo che segue è anche utile ricognizioni su recenti riletture dell'opera e della personalità del poeta, inseparabili per sua stessa volontà. (S.L.L.)
Nel prologo ai Saggi danteschi, Jorge Luis Borges immaginava la Commedia come una «magica», mostruosa opera-labirinto, in grado di catturare nella sua rete ogni aspetto del «passato » e del «futuro». Mostruoso, a questi patti, dovrebbe risultare anche l’architetto di una simile compagine, che si aggira come personaggio non soltanto per l’universo della propria creazione, ma anche alle sue spalle; e prima di spingersi a visitare cerchi, cornici e stelle fisse, ha richiesto una serie di prove generali: un inquieto processo di preparazione e addestramento al viaggio, di cui le Opere riproposte oggi in un Meridiano che comprende Rime, Vita Nova e De Vulgari Eloquentia (Mondadori, vol.I) costituiscono una tappa irrinunciabile.
Di Dante, assicurava Guglielmo Gorni nella sua Storia di un visionario, manca ancora un «ritratto in piedi», che presenti «un’idea forte dell’autore». L’affermazione, nonostante la mole della sterminata bibliografia dantesca, non appare del tutto sorprendente: alle prese coi testi dello «scriba dei» (e accadeva già a De Sanctis) si ha sempre la sensazione di avere a che fare con un gigante polimorfo e ingovernabile, pronto a intimorirci, o piuttosto a sovrastarci, alla stessa stregua delle scultoree creature elaborate dal sincretismo della sua «alta fantasia». Stavolta è toccato a Marco Santagata, nell’Introduzione al Meridiano, il compito di addomesticare la titanica fisionomia del poeta senza mai sminuire gli enigmi suscitati dalla sua indomita vitalità.
A cominciare dalle questioni (auto-)biografiche. Affermava Montale in una conferenza del 1965 che in Dante «vita e opere», al di là della presenza di più «punti oscuri», sono «così associate» da non permettere mai di «disinteressarci » della biografia del poeta. Anche perché, aggiunge ora Santagata, l’io di Dante si dimostra colpevole di un «protagonismo» autobiografico spropositato. Per quanto tassativi fossero infatti gli interdetti medievali che, a partire dalle auctoritates di Aistotile o di Agostino, inibissero nel «dire» di «se medesimi», Dante non esita a scavalcarli a forza di «reticenze» e «ambiguità»: non dice, ma suggerisce; non afferma, bensì allude; riesce, in altre parole, a piazzare il proprio io al centro del labirinto, utilizzando lo specchio di Narciso come un’esca senza lasciarsi abbagliare dalla sua luce. Ed è anche per questa ragione che Santagata si affretta ad analizzare gli ingranaggi della strategia di mistificazione, insistente e sottile, attraverso cui Dante si è dimostrato capace di allestire testo dopo testo una leggenda personale che suscitasse, nel tempo, la curiositas del lettore. Del resto, Santagata aveva già avuto modo di misurarsi con le insidie dell’autobiografia nel libro I frammenti dell’anima, dedicato a Petrarca. Ma in quel caso, per il critico, si era trattato di smascherare le mosse di un io lirico disposto a manipolare i dispersi tasselli della propria storia d’amore, e a riordinarli fino a costituire, sotto la supervisione del modello di Agostino, una sorta di romanzo-cattedrale da consegnarsi alla posterità. Anche il commento di Santagata al Canzoniere, pubblicato nella stessa collana dei Meridiani, aveva allora potuto ricostruire, a beneficio dei lettori, quel romanzo dell’anima dove l’io arriva a mischiare finzione e realtà, pur di garantirsi un osservatorio privilegiato da cui recuperare il perduto splendore di Laura.
Con Dante, invece, le cose vanno in maniera diversa. Qui il romanzo critico non sembra infatti possibile. Oltre alle tante zone d’ombra della biografia – scrupolosamente segnalate nella Cronologia di Vinicio Pacca – lo intralcia anche l’incontrollabile pluralità di direzioni della carriera dantesca: una pluralità che aveva fatto parlare a suo tempo Contini di «sperimentalismo sfrenato», e che tuttavia non impedisce di individuare, secondo Santagata, la fisionomia di un «arcipersonaggio» ricorrente di opera in opera, pluripotenziario e portavoce di un sapere e di un destino affatto eccezionali. Nonostante risulti lontana dalle esigenze della cultura medievale, sempre a caccia di figure esemplari, da una parte una simile entità può rappresentare il fuoco di un sistema attorno a cui il critico concentra le ipotesi, dal momento che l’arcipersonaggio Dante, nel suo protagonismo, ripropone una serie di miti (come la donna gentile o Beatrice), riprende progetti letterari, culturali, politici (sulla monarchia, ad esempio, o sul volgare illustre) e assicura, in ultima istanza, una rete di corrispondenze fra le diverse opere. D’altra parte, l’arcipersonaggio demiurgo, isolato nella propria eccentrica solitudine, si dimostra refrattario a lasciarsi imprigionare tra le maglie di una storia ben definita, visto che torna con insistenza sui propri passi per correggersi o reinterpretarsi, muta stile e divisa lasciando spesso incompiuto il lavoro, e quando parla di sé – specie nella Vita Nova – trasfigura le proprie vicende alla luce di un tono criptico-oracolare, che finisce non per confondere ma per abolire, secondo Santagata, la linea di demarcazione fra finzione e realtà.
Ad ogni modo, è proprio l’arcipersonaggio Dante a consegnarci un valido lasciapassare verso le singole opere del Meridiano, che i lettori troveranno commentate in una prospettiva per lo più intertestuale, tutta volta a mettere sotto i loro occhi la sapienza culturale del poeta. Mentre torna a ribadire l’impossibilità di una «interpretazione complessiva» dell’opera, il commento alle Rime, a cura di Claudio Giunta, si propone infatti di inquadrare ogni singola lirica «non all’interno» di un canzoniere «che non esiste», né della aleatoria «carriera» di Dante, ma richiama piuttosto l’attenzione «verso l’esterno», ricostruendo la «tradizione letteraria» alle spalle dei testi.
Per parte sua, la Vita Nova, a cura di Guglielmo Gorni, ci riporta invece verso l’interno del testo; e dopo aver ripristinato con assoluto rigore filologico l’originaria partizione del libro in 31 capitoli (contro i 42 delle precedenti edizioni), punta i riflettori del commento sulle suggestioni numerologiche, recuperando l’assetto interpretativo strutturale già allestito da Gorni nel libro Lettera Nome Numero.
Nell’introdurre il De vulgari eloquentia, infine, Mirko Tavoni discute una serie di prove che radicano la composizione del trattato all’ambiente bolognese, frequentato da Dante in occasione di un soggiorno nel 1305: come per ricordarci, una volta di più, il carattere funzionale, auto-celebrativo e a tratti esibizionistico della riflessione tecnica del poeta, sempre ancorata a un luogo e a un pubblico presso cui trovare ascolto e far bella mostra di sé.
Se a questo punto torniamo alla Commedia – già commentata, anche nei Meridiani, da Anna Maria Chiavacci Leonardi – le mosse di Dante risultano più chiare. Solo attraverso il complesso sistematico delle Opere Dante riesce a fondare e garantire il tono profetico-sapienziale dello scriba dei che ci attende nel poema sacro, e a legittimare, a pieno titolo, l’audacia della sua costruzione poetica. Una volta gettate le fondamenta del sapere con Rime, Vita Nova e De Vulgari Eloquentia, a Dante non restava che procedere nell’innalzare un edificio davvero in grado – come voleva Borges – di reinventare e assorbire tutto nella sua orbita conoscitiva: anche il suo stesso artefice, e quelle prove che finiscono per costituire non il necessario apprendistato al viaggio, bensì una parte integrante del suo itinerario.
Alias 9 aprile 2011
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