Il 15 agosto 2004 “il manifesto” ricordava Julio Cortàzar, nel ventennale della morte e centenario della nascita, pubblicando, nella traduzione di Marco Dotti, stralci dal discorso di Carlos Fuentes all’inaugurazione della Cátedra Latinoamericana Julio Cortázar, fondata nel 1994 da Gabriel García Márquez presso l'università di Guadalajara, in Messico.
Il discorso era stato pubblicato integralmente, col titolo Cortázar dio sentido a la modernidad (Cortázar diede senso alla modernità), sul quotidiano argentino «La Nación» di domenica 7 maggio 2000. Il testo è di straordinario interesse, testimonianza di un sodalizio letterario che si fa battagliera amicizia e favorisce il maturare nell’America Latina di una nuova civiltà. Lo riprendo qui con un titolo diverso. (S.L.L.)
Il discorso era stato pubblicato integralmente, col titolo Cortázar dio sentido a la modernidad (Cortázar diede senso alla modernità), sul quotidiano argentino «La Nación» di domenica 7 maggio 2000. Il testo è di straordinario interesse, testimonianza di un sodalizio letterario che si fa battagliera amicizia e favorisce il maturare nell’America Latina di una nuova civiltà. Lo riprendo qui con un titolo diverso. (S.L.L.)
Julio Cortázar, Carlos Fuentes e Luis Buñuel |
Come spesso succede, lo conobbi ancora prima di conoscerlo. Nel 1955, collaboravo alla «Revista Mexicana de Literatura» con lo scrittore Emmanuel Carballo. Fu lì che apparve, per la prima volta in Messico, un racconto di Gabriel García Márquez, il Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo. Grazie alle nostre amiche Emma Susana Separatti e Ana María Barrenechea, riuscimmo, inoltre, a ottenere la collaborazione di Julio Cortázar. I buoni servizi e Il persecutore uscirono per la prima volta su quella nostra rivista innovativa, attenta, tenace, anche un po' insolente. Più tardi, quasi facesse parte di una cospirazione, Emma Susana mi fece leggere il manoscritto di un romanzo di Cortázar, incentrato sulla decomposizione del cadavere di una donna sepolta con grandi onori sotto l'obelisco dell'Avenida 9 de Julio, a Buenos Aires. Da quel luogo al resto della Repubblica Argentina, la peste, la follia e il mistero si diffondevano con onde concentriche. Alla fine, Julio decise di non pubblicarlo. Temeva sarebbe stato giudicato scontato e banale. Oggi, la cosa più importante è ricordare che si trattava di un uomo che custodì sempre un proprio mistero. Quante pagine magistrali bruciò, strappò, gettò in un cestino o in un archivio cieco? Infine, senza che ci conoscessimo di persona, mi inviò la lettera più toccante che ricevetti dopo la pubblicazione, nel 1958, del mio primo romanzo, La región más transparente. La mia carriera letteraria deve a Julio questo impulso iniziale, dove intelligenza ed esigenza, rigore e simpatia, andavano di pari passo e già mostravano l'uomo con cui desideravo condividere il cammino. (...)
Nel 1960, giunsi finalmente in una piazzetta parigina ombreggiata, piena di botteghe artigiane e di caffè. Attraverso il portone di una rimessa, giunsi in un cortile. In fondo, una vecchia scuderia era stata trasformata in uno studio alto e stretto, su tre piani e con scale che obbligavano a un saliscendi, secondo una formula segreta di Cortázar. Vederlo per la prima volta fu un'enorme sorpresa. Nella memoria, avevo solo il ricordo di una sua vecchia fotografia, apparsa in un numero commemorativo della rivista «Sur». Un vecchio, con lenti spesse, il volto affilato, i capelli troppo appiccicati dalla brillantina, vestito di scuro e con un aspetto che incuteva timore, simile a quel personaggio dei fumetti che si chiamava Fulmine. Il ragazzo che mi ricevette, pensai, era sicuramente il figlio di quel cupo collaboratore di «Sur»: un giovane scompigliato, pieno di lentiggini, imberbe e impacciato, in pantaloni di tela e camicia a mezze maniche, aperta sul collo; il suo volto non dimostrava più di venti anni, animato da una risata strana, uno sguardo fresco, innocente, occhi grandissimi, divisi da due folte sopracciglia, pronte a lanciare una maledizione cervantina su tutto ciò che osasse violare la purezza del suo sguardo.
«Ragazzo, vorrei vedere tuo padre» - gli dissi. «Sono io» - rispose. Stava con Aurora Bernárdez, donna straordinaria, minuta, premurosa, affascinante, attenta a tutto quanto succedeva in casa. Quei due formavano una coppia di alchimisti della parola, maghi, falegnami e scribi, di quelli che durante la notte costruiscono cose invisibili e il cui lavoro si vede solo quando si riaffaccia il giorno. (...)
Per Cortázar la realtà era mitica in questo senso: stava anche dall'altro lato delle cose, di pochissimo oltre i sensi, in un posto invisibile solo perché non siamo stati capaci di tendere la mano in tempo per cogliere la presenza che nasconde. Per questo erano tanto grandi gli occhi di Cortázar: guardavano la realtà parallela. L'immenso universo nascosto, i suoi tesori pazienti, la vicinanza tra gli esseri umani, l'imminenza delle forme che attendono di essere convocate con una parola, un tocco di pennello, un accenno di melodia, un suono. Tutta questa realtà sul punto di manifestarsi era la realtà rivoluzionaria di Cortázar. Le sue posizioni politiche e la sua arte poetica si configuravano in una convinzione, per cui l'immaginazione, l'arte, la forma estetica, sono rivoluzionarie, distruggono le convenzioni morte, ci insegnano a osservare, a pensare o a sentire di nuovo. Cortázar era un surrealista nel suo tenace intento di mantenere unite quelle che lui chiamava «la rivoluzione di fuori con quella di dentro». (...)
Gabriel Garcia Márquez ed io lo ricordiamo mentre dava fondo a tutte le sue conoscenze sul romanzo poliziesco, durante un viaggio che ci stava conducendo da Parigi a Praga, nel 1968, con la buona intenzione di salvare l'insalvabile: la primavera del socialismo dal volto umano. Seduti nella carrozza ristorante, mangiando salsicce e mostarda e bevendo birra, lo ascoltavamo ricordare la successione del mistero nei treni, da Sherlock Holmes a Agatha Christie a Graham Greene a Alfred Hitchcock. Lo ricordo ancora.
Negli angoli della Mala Strana, dove alcuni ragazzi cechi improvvisavano musica jazz, Cortázar si abbandonava completamente, sulle note di Thelonius Monk, Charlie Parker o Louis Armstrong. Lo ricordo, lo ricordo ancora.
E il pessimo scherzo che mi fecero lui e «Gabo», invitati da Milan Kundera a un concerto di Janácek, mentre io ero stato invitato da amici a parlare, di fronte a un gruppo di metalmeccanici e di studenti trozskisti, dell'America del Sud. «Parlare in pubblico non ti costa nulla, Carlos: fallo per l'America del Sud!»
Musicalmente appresi qualcosa. Scoprii che nelle fabbriche ceche, per attenuare la monotonia stacanovista dei lavoratori, gli altoparlanti trasmettevano tutto il giorno la voce su disco di Lola Beltrán che cantava «Cucurrucucú, paloma». Lo ricordo. Ricordo, nel corso delle nostre camminate nel Quartiere latino, in cerca di un film sconosciuto o di uno già visto dieci volte, che Cortázar riguardava sempre come se fosse la prima volta. Adorava tutto ciò che insegnava a guardare, ciò che lo aiutava a riempire le profondità chiare dei suoi occhi da gatto sacro, inquieto di vedere, perché aveva una vista molto grande. Antonioni o Buñuel, Cuevas o Alechinsky, Matta o Silva: Cortázar talvolta come un cieco, sorretto dai suoi amici vedenti, suoi lazarillos artistici. Lo ricordo: sguardo innocente, in attesa che una visione incomparabile gli si presentasse davanti.
Un giorno gli dissi che era il Bolívar della letteratura latinoamericana. Ci liberò liberandosi, con un linguaggio nuovo, disposto ad ogni avventura: Rayuela (Il gioco del mondo) è uno dei grandi manifesti della modernità latinoamericana, vi ritroviamo ogni nostra grandezza e ogni nostra miseria, le nostre colpe e le nostre occasioni, attraverso una costruzione verbale libera, aperta e incompiuta, che non smette di chiamare a sé i lettori di cui ha bisogno per continuare a vivere e non terminare mai. Perché l'opera di Julio Cortázar è una continua e incalzante questione sul compito possibile del romanzo futuro: dialogo aperto non solo dei personaggi, ma dei linguaggi, delle forze sociali, dei generi, dei tempi storici che, altrimenti, non si sarebbero stretti la mano se non per lo spazio di una finzione. (...)
Nel suo personalissimo elogio della follia, Julio, come Erasmo nel Rinascimento, fu cittadino del mondo: compatriota di tutti, ma anche, misteriosamente, straniero per tutti. Ha dato un senso alla nostra modernità, perché l'ha resa critica, mai compiaciuta o esclusiva, permettendoci di sopravvivere nell'avventura del nuovo mondo quando ogni cosa sembrava indicarci che, al di fuori dell'arte - inclusa forse l'arte stessa - ormai non c'era novità possibile perché il progresso aveva interrotto il proprio cammino.
Cortázar ci parlò di qualcosa di più: del carattere insostituibile del momento vissuto, del godimento del corpo avvinto a un altro corpo, della memoria indispensabile per tenere in vita il futuro e dell'immaginazione necessaria per conservare il passato. Quando Julio morì, una parte del nostro specchio si ruppe (...)
Gabriel e io vorremmo che il Gran Cronopio dimostrasse che la sua morte fu solo un'invenzione dei giornali e che lo scrittore che ci insegnò a vedere la nostra civiltà, a raccontarla e a viverla, oggi è qui, invisibile solo per coloro che non hanno fede nei Cronopios.
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