17.2.12

Passato e presente (di William Morris)

William Morris, Tessuto da tappezzeria
Su William Morris artista, imprenditore e socialista questo blog contiene già notizia, attraverso il profilo tracciato sul “manifesto” da Giuseppina Ciuffreda e qui riproposto. Qui ne riprendo un brano esemplare, ove il senso della storia, della natura, dell’arte e l’ideale politico progressista ottimamente si fondono in una nitida argomentazione e in una bella comunicazione.
Il brano è tratto dall’antologia di scritti politici Come potremmo vivere, edita dagli Editori riuniti nel 1979, curata e introdotta da Lia Formigari. (S.L.L.)


Su Morris vedi anche

Un'immagine dal Berkshire, a sud di Wantage,
ove nacque re Alfredo detto il Grande
Mi ricordo tre brani di storia o cronaca contemporanea che un caso fortuito ha fatto giungere fino a noi e che illustrano curiosamente il cambiamento che ha avuto luogo nelle abitudini degli inglesi. Una signora che scriveva da Norfolk quattrocento anni fa a suo marito a Londra, tra le varie commissioni per la tappezzeria, la drogheria e gli abiti, gli raccomandava di non dimenticare di portare a casa una buona scorta di archi a croce e relative frecce perché le finestre della loro sala erano troppo basse per i lanci con gli archi normali. Un viaggiatore tedesco, che scriveva alla fine del periodo medievale, parla degli inglesi come di persone estremamente pigre e orgogliose, e i migliori cuochi d'Europa. Un ambasciatore spagnolo dello stesso periodo dice: « Questi inglesi vivono in case fatte di assi e fango, ma dentro vi regna un'abbondanza da gran signori ».
Debbo ammettere che provoca una strana emozione rievocare quei tempi e cercare di rendersi conto della vita dei nostri progenitori, uomini che portavano il nostro stesso nome, che parlavano all'incirca la stessa lingua, che abitavano gli stessi luoghi della terra, ma erano tanto diversi da noi per costumi, abitudini, modi di vita e pensiero quanto lo sarebbero stati se fossero vissuti su un altro pianeta. Lo stesso volto del paese è cambiato, e non mi riferisco soltanto a Londra e ai grandi centri industriali, ma al paese in generale; non c'è lembo del territorio inglese, eccettuati posti come la pianura di Salisbury, che non siano una testimonianza degli straordinari mutamenti che quattrocento anni hanno prodotto nel nostro paese.
Spesso mi diverto a cercar di immaginare il volto dell'Inghilterra medievale: i molti territori di caccia e grandi boschi, le strisce di terreno non recintato dedicate alle colture e al pascolo comunitari; le primitive forme di agricoltura e di allevamento di buoi, pecore e suini, specialmente questi ultimi, lunghi, magri, ossuti, inconcepibili per noi; le file di cavalli da carico lungo i sentieri; la scarsità di strade carraie, quasi inesistenti se si eccettuano quelle lasciate dai romani e quelle fatte per congiungere un monastero all'altro; i pochi ponti, e la gente che usava, dove poteva, traghetti e guadi; le piccole città con la loro bella chiesa e spesso anche con la cinta di mura; i villaggi, negli stessi posti in cui sono ora (eccettuati quelli di cui è rimasta soltanto la chiesa), ma migliori e più popolati di quanto non siano adesso; le loro chiese, alcune grandi e belle, alcune piccole e strane, ma tutte ricolme di altari e arredi e ravvivate dai quadri e dagli ornamenti; i numerosi conventi con la loro splendida architettura; i bei manieri, alcuni dei quali erano stati un tempo fortezze, resti di periodi precedenti; alcuni nuovi ed eleganti; altri sproporzionatamente piccoli in rapporto all'importanza dei loro signori. Come sarebbe strano per noi tornare nell'Inghilterra del XIV secolo! Solo la vista del crinale d'una collina a noi familiare — come quella su cui ancora si erge il segno di una tribù inglese, e da cui, guardando la pianura dove nacque re Alfredo, una volta mi capitò di pensare a tutto questo — ci direbbe in che parte del mondo siamo: ben poco d'altro è rimasto, salvo il nome.
Questo pensiero mi ridona speranza in quello che potrà accadere: lo stesso sarà di noi nei tempi futuri, tutto sarà mutato, un altro popolo abiterà qui in Inghilterra, un popolo che, per quanto possa essere del nostro sangue e portare il nostro nome, si chiederà come noi vivessimo nel XIX secolo.
In quella rigida società di casta del XIV secolo, con la sua rozza abbondanza, con la sua vita errabonda, con la sua serena accettazione della brutalità e della violenza, era in atto un'acuta
lotta di classe legata a una speranza di progresso secondo l'immagine che se ne aveva allora: i servi venivano gradualmente liberati, alcuni di loro diventavano abitanti delle città, alcuni diventavano giornalieri o « lavoratori liberi », come li chiamavano, altri diventavano piccoli concessionari agricoli. Nelle città le corporazioni si facevano più forti, le gilde degli artigiani conoscevano ascesa e corruzione, cresceva il potere della corona, assistita dalla nascente burocrazia; in breve
la borghesia si andava formando sotto le apparenze di un feudalesimo ancora intatto e tutto si stava preparando al decollo della grande epoca commerciale, alle cui ultime battute io spero stiamo assistendo. Quell'epoca cominciò con la prodigiosa trasformazione dell'agricoltura, cioè la coltivazione ai fini del profitto invece che della sussistenza. La terra fu dunque strappata al popolo, scomparve la figura del contadino libero e nacque quella del proprietario fondiario. La popolazione delle città crebbe, gonfiata dall'afflusso di uomini rimasti senza terra e senza signore, che andarono a costituire il vero e proprio proletariato o classe dei lavoratori liberi; e la loro stessa esistenza rese possibile un embrionale capitalismo industriale.

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