Fatima era una bambina curiosa. «Bussarono alla porta. Fatima uscì per vedere chi era e trovò un individuo ingioiellato e parato a cerimonia con due ali verdi che sbarravano la vista a Oriente e a Occidente». La piccola tornò in casa e disse all'inviato di Dio: «Padre mio, alla porta c'è qualcuno che mi ha messo paura e sgomento!». Con questa vivida scena e le parole di sua figlia, comincia il viaggio del profeta Muhammad, cioè Maometto. Siamo nell'ottavo anno della sua missione, e la figura alata che bussa alla porta del fondatore dell'Islam è l'arcangelo Gabriele: i luoghi che il profeta andrà a visitare esigono un dito che indichi, una voce che spieghi.
Se per Dante furono Virgilio e Beatrice, a scortare Muhammed saranno questo «fratello» celeste e Buraq, «volto umano e il corpo come quello di un cavallo la criniera fatta di una tramatura di perle fresche e mature e bacchette di giacinto, scintilla di luce». Il Viaggio notturno e l'ascensione del Profeta è un testo fondamentale della tradizione islamica, che Ida Zilio Grandi propone per la prima volta in una suggestiva traduzione italiana dall'originale arabo, con una prefazione di Cesare Segre e una postfazione di Maria Piccoli (Nue Einaudi). E' questo un racconto di grande tenuta poetica e generosita' immaginifica, che si legge come un'avventura dall'estetica raffinata. Del resto sono proprio le due civiltà iconofobe - l'ebraismo e l'Islam - ad aver dato alle parole la capacità di plasmare al posto dell'arte figurativa quelle immagini che esse considerano pericolose scorciatoie verso l'idolatria.
Il viaggio del profeta sono in realtà due, come sottolinea Cesare Segre. Uno che spazia nella dimensione orizzontale e conduce il viaggiatore dalla città lucente di Medina sino al «tempio più remoto» (al masgid al-aqsa) che la tradizione islamica identificherà in Gerusalemme. L'altro che parte di lì e grazie a una «scala» (che tanto in ebraico quanto in arabo si dice sullam) giunge nell'alto dei cieli, in verticale. Non a caso, il punto da cui secondo la tradizione Muhammad spiccò il volo in sella a Buraq per visitare il Paradiso e guardare l'inferno è esattamente lo stesso sul quale il patriarca Giacobbe si addormentò apposta per sognare la sua, di scala, con un frenetico viavai di angeli.
«Lassù, tra le creature di Dio Eccelso e Sommo, vidi un angelo tanto enorme che se Dio gli ordinasse di inghiottire in un solo boccone tutti e sette i cieli lo farebbe con facilità», dice il Profeta dell'Islam. L'angelo che fa accapponare la pelle è Malik, il guardiano dell'Inferno, dove tra i tanti vi è chi beve «acqua purulenta e quando un po' giunge loro nel ventre, ecco che la pelle cade a brandelli, e poi torna a formarsi nuovamente» (sono gli usurai). Sopra c'è il invece Paradiso, dove la «terra bianca è come fosse argento, i ciottoli di perle e di corallo, la polvere è di muschio, le piante di zafferano, gli alberi hanno foglie d'argento e foglie d'oro e sono coperti di frutti simili a stelle luccicanti». E qui conviene lasciare al lettore curioso la sorpresa.
Questo cammino mistico trova il suo spunto là dove nel Corano è detto «Gloria a colui che rapì di notte il Suo servo per mostrargli parte dei Nostri segni» (17, 1). La tradizione islamica è incerta se attribuire una dimensione «corporea» a questo viaggio o farne piuttosto qualcosa di diverso - un'avventura vissuta da Muhammed attraverso l'anima.
Non è difficile intravedere in questo testo paralleli e convergenze fra civiltà. A incominciare naturalmente da Dante, dei cui rapporti con la cultura islamica e questo filone in particolare molto è stato detto, e passando per le visite in paradiso e inferno di cui è ricca la tradizione ebraica, con una poetica propensione all'iperbole molto simile a quella che si trova qui - dove si perdono le proporzioni di spazio e tempo, e dove la luce ha una ricchezza di sfumature difficilissima da rendere (Ida Zilio Grandi ci è riuscita a dire il vero benissimo). Di fronte a questo testo così antico, così «straniero» eppure così familiare, chi dispensa sul passato, sul presente e anche sul futuro l'etichetta «scontro di civiltà» si troverà un po' spiazzato: scoprirà che siamo tutti figli della contaminazione. E a volte, come in questo caso, decisamente felice.
“La Stampa”, 27 giugno 2010
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