8.2.12

"Ho scritto la mia prima poesia..." (di Alfonso Gatto)

Sul "Politecnico", la rivista di Vittorini, di Fortini e di tanti altri, la cui curiosità e libertà non piaceva a Togliatti e a tanti altri, non di rado si parlava di poesia. Alfonso Gatto, un grande lirico ingiustamente caduto nell'oblio, qui ragiona del suo rapporto con la cosa chiamata poesia, del suo valore storico e sociale. Buona lettura (S.L.L.) 
Ho scritto la mia prima poesia a vent'anni in una stanza diroccata. Di là dalla finestra c'era il mare pioveva dolcemente. Avevo visto per vent'anni le montagne chiudere il golfo e contro il cielo una casetta odorare del suo intonaco rosa che la pioggia le risvegliava. Tante sere io mi dicevo: "Dopo di me vivrà il mondo, chissà se altri guarderà questi colli e il mare col mio stesso sguardo e senza saperlo mi ricorderà".
Forse era amore questo desiderio e di sopravvivenza. Forse era gloria. Forse era un viaggio di là dai monti - addio a mia madre, addio a me stesso rimasto bambino al balcone per salutarmi. Forse era morte - andare con l'ultima luce, rimpiangermi come io solo sapevo rimpiangermi. E donne, treni, quei tramonti così lunghi che tutte le case n'erano calde, significavano la vita che non dovevo toccare se m'era tutto dentro, avuta col sangue, con gli occhi, con la bocca che mi sorrideva.
Questa fu la poesia che mi si rivelò in quella stanza diroccata ov'io ero seduto: le parole che scrissi allora poche, timide, ma come sospese nel silenzio che m'era intorno, mi sembrava che fossero proprio quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo grande bambino.
È un'immagine che non ho perduto lungo gli anni: quel modo dolce e incontenibile con cui il mio cuore si senti soffocato e aperto, me rimasto dentro per ogni mia parola, per ogni atto in cui mi sento vivere; e nulla c'è che mi distolga dal credere ancora oggi che la terra e gli uomini abbiano bisogno d'essere amati dal mio sguardo, suscitati nella terra, forti, vittoriosi nella splendida materia delle parole
Le polemiche, le definizioni mi hanno lasciato intatto il mio brusco modo di sentirmi vivo e di riconoscere la poesia con franchezza, come un fatto, come una cosa.
Io odio gli uomini che la credono un problema, che vogliono ridurla al­le proprie ragioni, che non sentono il terrore delicato in cui essa è sospesa ogni volta a trovare la sua voce al mo­mento in cui tutte le parole tacciono.
A non saper dir nulla di me, altro che il modo come ero aperto all'amo­re avido che mi cercava, quale strug­gente nostalgia di bene mi sentivo di portare, e quale viaggio da compiere al di là di me stesso per ritrovarmi. "Io ero malinconicissimo e mi posi alla finestra": è questa la veduta per l'infi­nito che ci ha lasciato Leopardi. Noi amiamo la vita quanto più sentiamo di dover resistere alle sue stesse im­pressioni, e durare, consumandola nel tempo e nella sua musica, affin­ché la nostra purezza sia come la spo­glia del corpo ove abbiamo bruciato tutta la gloria e tutta la pena per non inaridire e per rispondere anche coi palpiti alla voce che sino all'ultimo ci desterà.
Lasciamo questo nostro desiderio aperto nella storia degli uomini, è la ragione della vita stessa, una tenace materia in cui vogliamo che tutti i pensieri siano cose.
La poesia è una realtà che accusa il lettore e lo pone di fronte alla sua di­strazione. Egli forse vuol vivere co­munque, ma davanti alla poesia si ac­corgerà che le parole, a una a una e nel loro periodo, a poco a poco lo prendono, gli rivelano un mondo che presentiva, in cui dovrà riconoscersi e non perdere nulla della sua grandez­za e della sua miseria. S'accorgerà che perdendo la faccia si darà un volto, si identificherà e fermerà un momento, perche gli parlino, poi, sempre più a lungo quegli stessi desideri che prima abbandonava e temeva.
La poesia vi provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta.
Presentandovi le mie liriche io vo­glio essere un buon provocatore, sta­te attenti. Appunto perché la poesia è vita, essa può essere subito ricondot­ta alle dimensioni di un problema, a far soltanto da mediatrice e da mode­ratrice tra i sentimenti estremi che es­sa suscita e gli ideali apparenti che es­sa conforta.
L'uso della poesia, di tutta la poe­sia, per coloro che vogliono fermarla al suo valore di "arte" e inibirle ogni umana disperazione, poggia ancora sul conforto che ne vuole ottenere a tutti i costi, nonostante che i poeti vi­vano appunto per smentirlo.
Anche io sono qui a smentirlo, per contagiarvi della mia disperazione, per radicarvi alle mie speranze, per dirvi che i vostri affetti e le vostre pas­sioni sono un nulla, una bugia che voi sapete di dire, se non sono la vo­ce stessa dei sentimenti che dovete raggiungere e identificare in voi e contro di voi, nella pienezza della vo­stra vita morale e nella realtà della vo­stra natura.
Se voi vi domandate perché un poeta scrive, in che modo si è deciso a scrivere, se voi ricordate quel ragaz­zo seduto nella sua stanza diroccata, comprenderete perché la poesia ap­partenga agli uomini che non si di­fendono, che passano nella vita, lun­go tutta la vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che cre­dono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemme­no a destarla.
Il poeta è un uomo mortale che vi­ve con tutta la sua morte e con tutta la sua vita, nel tempo, e in sé si consu­ma e si sveglia, negli altri si popola e si chiama, e nulla possiede che non abbia già amato e perduto.
"Volea dire, troverai altri in vece mia, ma no: un cuore come il mio non lo troverai", ha scritto Leopardi. Lasciate che i poeti siano sicuri di questa disperata bontà per il proprio cuore.

da "Il Politecnico", n. 36, 1947

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