Ritratto dell'attrice da giovane |
Una recensione d'epoca descrive dettagliatamente lo spettacolo che Sarah Bernhardt diede una sera a Poughkeepsie, New York: solo due scene, La mort de Cléopatre e l'arringa di Porzia al processo del Mercante di Venezia, entrambe in francese e organizzate in modo che l'attrice non dovesse spostarsi. In Cleopatra ella giaceva su di un divano, circondata da ancelle egizie. Nel Mercante la si vedeva in piedi, ma il suo personaggio era entrato in scena a luci spente. L'anno era il 1916 e circa diciotto mesi prima alla diva, settantunenne (se veramente era nata nel 1844), era stata amputata la gamba sinistra per le complicazioni di un vecchio trauma alla rotula, aggravato quando, in una recita della Tosca - uno dei sette drammi che Sardou aveva scritto per lei (tra gli altri: Fèdora, Théodora, Cléopatre, tutti con delle morti spettacolari) - il fatidico tuffo dal parapetto di Castel Sant'Angelo non era stato attutito dal materasso, che qualcuno si era dimenticato di collocare. All'emergenza Sarah aveva reagito con caratteristica energia, esortando i medici ad agire subito. Il figlio la supplicava di ripensarci, lei rispose: «Scegli tu cosa devo fare, ma sappi che o mi opero o mi ammazzo». Vivere senza le luci della ribalta le era inconcepibile e infatti non appena potè ripartì per la sua ultima tournée americana.
I fatti della straordinaria esistenza della Berhnardt sono recapitolati con brio in una nuova biografia di Robert Gottlieb (Sarah, Yale University Press, pagg. 234, $ 25) che compare in una serie di «Jewish Lives», o vite di ebrei illustri: le origini della pur cattolica vedette diedero infatti sporadici spunti ai suoi diffamatori e a qualche boicottaggio. Era figlia di ebrei olandesi: sua madre Youle era scappata giovanissima in Francia, dove aveva avuto Sarah, non si sa da chi, a circa vent'anni. Per qualche ragione, Youle non si affezionò alla bambina, che prima esiliò in campagna e poi mise dalle monache per sei anni. Quando fu il momento di decidere del suo futuro, Sarah stessa e sua madre propendevano per il convento. Si impose allora uno degli amanti ufficiali di Youle (che aveva un salotto di démi-mondaine a Parigi), l'onnipotente duca di Morny, fratellastro illegittimo di Napoleone III, raccomandandola alla scuola di teatro della Comédie Francaise. A quanto pare Sarah non aveva una vera vocazione e dopo il biennio sarebbe stata scartata se il duca non si fosse rifatto vivo con chi contava. Quando debuttò come professionista si fece notare, più che per la sua arte, per la sua stranezza: era magrissima in un'epoca di donne floride, aveva il naso lungo («da ebrea!»), capelli rossi, profondi occhi esotici. Era sexy ma era anche una ribelle. Ben presto ebbe un clamoroso screzio con una collega più illustre, e fu espulsa. Disoccupata, per due anni esercitò l'attività materna, intrattenendo una serie di protettori, da uno dei quali, pare il principe belga de Ligne, ebbe, a vent'anni anche lei, il figlio Maurice. Poi arrivò una scrittura all'Odéon, dove finalmente la sua singolare personalità si impose grazie a parti azzeccate e anche a una singolare abilità per mettersi in vista, magari con la propaganda patriottica e l'accoglienza nella sala dell'Odéon ai feriti della guerra franco-prussiana. Le giovò anche, all'epoca della Comune, l'amicizia con Victor Hugo tornato dall'esilio. Bisognosa di una star, la Comédie la riprese e la vide imporsi (Britannicus, Phédre) in coppia con l'aitante Mounet-Sully, uno degli innumerevoli partner con cui Sarah ebbe una storia. Ma, dopo una tournèe trionfale a Londra (1880), si emancipò definitivamente dalla veneranda istituzione e per i restanti 44 anni gestì da sola la propria carriera e il proprio personaggio spregiudicato, dalle ben pubblicizzate eccentricità - lo zoo domestico con leoncini e persino un alligatore; la bara in camera da letto; l'attività di scultrice, cui si dedicò con una certa perizia; le toilette originalissime che disegnava lei stessa; lo sfarzo degli spettacoli, di cui curava ogni particolare e in cui investiva anche somme assai ingenti; l'avidità con cui accumulava oggetti d'arte e gioielli di ogni genere e la noncuranza con cui se ne disfaceva per pagare i debiti del tracollo del momento e ricominciare daccapo. Ebbe una sfilza di amanti, famosi (Hugo, Dorè, Rostand, Jean Richepin, D'Annunzio...) e non, ma si sposò una volta sola, disastrosamente, con un sedicente aristocratico greco che la tradiva, perdeva al gioco il suo denaro e morì drogato a 34 anni. Invano Gottlieb si domanda come mai grandi primedonne che avrebbero potuto scegliere il meglio - la Callas, la Duse, Margot Fonteyn, Isadora Duncan - si lasciarono umiliare da uomini infidi e prepotenti. Sarah comunque ne uscì presto, i suoi rapporti personali erano sempre subordinati al teatro. Qui era piombata come un ciclone di anticonformismo, cimentandosi in ogni tipo di ruoli. Tra quelli maschili spiccarono L'Aiglon, otto mesi di esauriti e, naturalmente, Amleto che, malgrado le fotografie oggi un po' ridicole, fu a detta di tutti meditato e assai interessante - nuova traduzione quasi integrale e un principe alacre e vigoroso, splendido schermidore del duello, ben diverso da quelli deboli e indecisi che vigevano allora. Per una generazione di spettatori, Sarah Bernhardt incarnò il vitalismo romantico e la seduzione trasgressiva; poi diventò una leggenda ed esibendo se stessa evocò invece il passato, i cosmetici e la coquetterie maliziosa: era la Grande Mondana, sfrontatamente eccessiva ma irresistibile. Nel frattempo erano arrivati la Duse e il repertorio della Duse, meno regine e più Ibsen.
La Stampa 11 dicembre 2010
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