Una doppia recensione di Cesare Cases che è anche una breve e compiuta interpretazione di Kafka da parte di un grande maestro di letteratura. (S.L.L.)
« Il 3 luglio 1983 il massimo scrittore vivente, Franz Kafka, compirà cento anni. Sono già previsti per l'anno prossimo, in tutto il mondo, settantacinque congressi sulla sua opera con la partecipazione di circa ventimila studiosi. Si calcola che gli atti, una volta pubblicati, peseranno un centinaio di tonnellate. Oltre cinquecento radiodrammi e sceneggiati televisivi rievocheranno gli amori dello scrittore praghese. Pare ormai sicuro che egli, notoriamente residente da parecchi decenni a Montagnola nel Canton Ticino, dove conduce vita estremamente ritirata, abbia promesso di presenziare all'inaugurazione del congresso di Francoforte, in occasione del quale il suo editore, Fischer, offrirà ai convenuti una cena naturalmente vegetariana per rispettare le abitudini del festeggiato. Questi terrà un breve discorso che sarà trasmesso in mondovisione. Ha invece rifiutato altri numerosi inviti, tra cui quello del nostro presidente del Consiglio che voleva consegnargli a Roma la penna d'oro, in nome della comune amicizia con Giuseppe Prezzolini, che prima di Kafka aveva raggiunto il traguardo dei cento anni e che da Lugano si recava spesso a piedi a Montagnola per visitare il più giovane ma più celebre collega».
Questa immaginaria notizia di stampa, sconciamente blasfema, serve però a ricordare che Kafka, che siamo soliti considerare un classico abbastanza remoto del Novecento, separato da noi da una montagna di interpretazioni, potrebbe essere ancora vivo. Se non apparirà ai festeggiamenti dell'anno prossimo, nonostante una costituzione fisica non meno buona di quella di Prezzolini, ci sono buone ragioni. La sua morte a neanche quarantun anni equivale per molti aspetti a un suicidio, cui del resto aveva spesso pensato. Il suo modello era Kleist, e per due volte egli propose a Felice Bauer di imitarlo nel suicidio a due. La tubercolosi che lo condusse a morte fu da lui stesso precocemente spiegata in questo senso. Scrive a Max Brod nei 1917: « Ho qualche volta l'impres-sione che il mio cervello e i miei polmoni abbiano concluso un patto a mia insaputa. "Così non si può an¬dare avanti', ha detto il cervello, e in capo a cinque anni i polmoni si sono dichiarati disposti ad aiutarlo»,
Nessuno poteva addentrarsi nel dramma della vita di Kafka meglio di Marthe Robert, che già si era ampiamente occupata dello scrittore soprattutto in quel discutibile ma stimolante libro che è L'antico e il nuovo. Questo Solo come Kafka (Editori Riuniti), assai ben tradotto da Marina Beer, più divulgativo e con meno ambizioni teoriche, si legge con profitto e con passione. La Robert vi discute esaurientemente l'ebraismo di Kafka, che è anche il suo non-ebraismo. E' infatti erroneo concepire Kafka come il prodotto di una tradizione. Egli si è formato al di fuori di essa e il suo dramma, che egli scopre verso il 1911, sta nel sentirsi irrimediabilmente disancorato dalle comunità dell'ebraismo orientale, da cui proviene, e insieme non integrato nel mondo occidentale (il padrone del Castello si chiama significativamente conte West-West). Sicché egli invidia coloro che le radici le hanno, che si tratti degli attori jiddish o del cognato cristiano, il marito di Ottla.
Il complesso del padre è un ulteriore elemento di frustrazione e favorisce le tendenze ascetiche che allontanano il matrimonio nel limbo di un dovere impossibile. L'etica che Kafka si impone è in realtà molto più rigida di quella ebraica cui voleva ritornare. Ma, osserva la Robert, la sua opera porta scarse tracce di simili soluzioni personali e obbedisce al "principio di non intervento", per cui il personaggio è gettato nel mondo privo di idee e di principi. Il suo errore sta nel non saper distinguere, in questo mondo, tra livelli alti e bassi: è i primi che vuole attingere mentre solo i secondi potrebbero (forse) aiutarlo. In questo equivoco sta la comicità che sempre lo aureola. »
A tale comicità è dedicato il libro di Renato Barilli (Comicità di Kafka, Bompiani), che con la consueta chiarezza e perfetta conoscenza dello sfondo della crisi europea la esemplifica analiticamente soprattutto nei tre romanzi — i racconti, come osserva lo stesso autore, recalcitrano a tale trattamento — fondandosi sulla teoria freudiana del comico che viene esposta nel contesto di un saggio iniziale su Freud e l'arte. Questa attenta ricognizione degli effetti comici vede in essi l'essenziale e non soltanto il rovescio della medaglia. Il "kafkiano" (o il "kafkaesco", come dicono i tedeschi per indicarne la frequente banalizzazione) non va a genio all'autore, che lo trova addirittura un «errore madornale» di chi è così «inibito» da credere che Kafka «facesse sul serio». A chi paragona l'atmosfera del Processo ai processi staliniani obietta: «Che ragione avremmo di leggerne con godimento noi, membri di generazioni per loro fortuna estranee a questi processi e al loro clima?».
Ma che cosa si offre a queste fortunate generazioni, sotto e sopra il ponte di Londra? Processi, mi pare, ben più kafkiani di quelli staliniani, con fonti di potere più anonime, inconoscibili, imperscrutabili (si veda il bell’articolo di Milan Kundera nell’ultimo numero dell’ “Illustrazione italiana”), diventa sempre più, e non meno kafkiano (o kafkaesco che dir si voglia).
“L’Espresso”, 24 ottobre 1982
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