Questo mercoledì delle Ceneri, piovoso e inquieto, mi riporta alla memoria il mio Liceo, l’“Ugo Foscolo” di Canicattì, sito nell'antico quartiere di Borgalino, e il mio professore di filosofia, padre Conti, che ne era un’istituzione.
Doveva essere il 65 e c’era ancora la Messa in Latino. Già governava il centro-sinistra, il primo, quello buono, ma le abitudini del regime democristiano non erano state ancora abbandonate. Sicché l’intera scuola, il mercoledì dopo carnevale, saltava la prima e la seconda ora per partecipare, in una chiesa vicina, alla Messa delle Ceneri, con un famoso predicatore che invogliava alla penitenza quaresimale e con il rito finale della croce disegnata da un carboncino sulla fronte dei fedeli.
A noi più grandi, credenti e non credenti, la cosa non dispiaceva: non solo era meglio che andare a scuola, ma era un'occasione di comunicazione con le ragazze del ginnasio, più mature dei loro coetanei e interessate a noi degli ultimi anni.
La terza ora del mercoledì, quell’anno, aveva lezione padre Conti, cui non dispiaceva di inframmezzare con aneddoti le sue lezioni assai stimolanti. Era uomo di grande cultura e apertura e spesso scherzava sulle cose di religione. In particolare giocava sulla stupidità dei preti, dei licatesi (“licatisi babbu” vale a dire “licatese babbeo”), degli alti (“longu e fissa”, cioè “alto e fesso”, si usa dire in Sicilia, ove i più hanno bassa statura). Era per padre Conti un modo per scherzare su stesso: oltre che prete, infatti, era licatese (inconfondibilmente, per via dell’accento) e misurava un metro e novanta d'altezza.
Così, quella mattina, date le circostanze, ci raccontò un aneddoto il cui protagonista era - come lui - prete, alto e licatese; e di conseguenza tre volte sciocco.
Il prete del racconto, parroco in uno sperduto paesino, era stato scosso nell’ultima domenica di Carnevale da un dubbio atroce. Tre giorni dopo avrebbe officiato la funzione delle Ceneri e pronunziato la formula: Memento homo quia pulvis est et in pulverem reverteris (“Ricordati, o uomo, che sei polvere e nella polvere ritornerai”); ma gli “uomini” tra i suoi fedeli erano una piccola minoranza e alla Messa erano preponderanti le “femmine”. Che senso aveva chiamare homo quella che era soltanto una femina?
I telefoni privati in quel paese non c'erano e quello pubblico funzionava malissimo e mai di domenica: era meglio attendere il lunedì e inviare un telegramma al vescovo, perché chiarisse la questione.
Così il prete fece. Ma il lunedì pomeriggio trascorse senza risposta e così l'intero martedì; giunse il mercoledì e il tempo della solenne funzione. Il prete alto viveva nel dubbio e nell’angoscia.
Solo a rito delle Ceneri iniziato arrivò il fattorino dell’ufficio telegrafico sventolando un pezzo di carta giallo. Il prete licatese non se la sentì di interrompere il sacro officio e lo mise in tasca. Il primo dei fedeli inginocchiato era, per fortuna un uomo; " Memento homo..." disse il prete. Ma appresso a lui c’era una donna, la moglie. Il parroco, dopo averne segnata la fronte, così declamò: “Fimmina, pi tia l’aiu ‘nsacchetta (Femmina, per te lo tengo in saccoccia)”.
Le nostre risate furono lunghe e fragorose. Si può obiettare che ci accontentavamo di poco, che la nostra ilarità era prodotto della repressione sessuale, per cui bastava un’oscena metafora o una vaga allusione a suscitarla. Sarà, ma contava moltissimo il contesto e contava la bravura di padre Rosario Conti, grandissimo narratore, oltre che eccellente professore.
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