Scilla |
Ricordo che Renato Guttuso, disegnandola e colorandola col pensiero, la chiamava “la fascia mamertina”. Sono le strisce di confine della Sicilia e della Calabria che si guardano e quasi si toccano sullo Stretto di Messina. Ecco, bisogna immaginare come un triangolo: la linea di base unisce idealmente Reggio a Messina e la punta indica l'ingresso dello Stretto, con Scilla da una parte e Punta Faro dall'altra. E infatti, alla sera, proprio dal castello di Scilla la fascia luminosa di un faro incrocia a intervalli la luce siciliana di Punta Faro. Ha un senso storico chiamare "mamertino” questo triangolo perché, anche se pochi lo sanno, queste strisce di costa furono, nel III secolo a.C., occupate da mercenari campani [i mamertini] che erano al servizio di Agatocle, tiranno di Siracusa, e che, dopo la morte di questi, avevano fatto dello Stretto una specie di regno autonomo e incontrastato.
Per oltre mezzo secolo i mamertini imposero, bene accolti, leggi, gusti e abitudini. Per scacciarli da lì è dovuta infatti scoppiare, anche per loro iniziativa, la prima guerra punica. Tuttavia, qualcosa ancora resta di questa singolare e indipendente signoria mamertina, tanto che si potrebbe tranquillamente affermare che così come Messina non è totalmente siciliana, neanche Reggio è totalmente calabrese. Sono, appunto, le "Riviere" dello Stretto che, per qualche aspetto e per alcuni usi, sono un mondo a sé. Lo sono, ad esempio, nei cibi e in un certo gusto di cucinarli e conservarli. E poi anche perché il mare che li bagna, e la sua fauna, sono forse diversi dal mare e dai pesci del vicinissimo, greco Mare Jonio e di quel Mare Tirreno che si arresta alle porte dello Stretto.
Secondo un'antica tradizione locale il pesce dello Stretto di Messina ha infatti un sapore più intenso perché non è mai lasciato a riposo dalle forti correnti. Deve, per così dire, lottare quattro volte al giorno per far fronte ai grandi fiumi di corrente che cambiano direzione, e questo migliora e raffina la sua carne. I marinai chiamano con un nome greco, "rema", la corrente che ogni sei ore cambia nello Stretto rendendo il mare limpido e pieno di cibo e di occasioni di vita e di morte per gli stessi pesci. I fiumi di corrente sono diversi e viaggiano in senso contrario, perciò sulle linee di contatto il mare ribollisce, e si formano vortici irresistibili [come ricorda Omero nel XII canto dell'Odissea] che richiamano spesso in superficie grandi pesci, quali l'aguglia imperiale, il pesce-luna, talvolta perfino testuggini. Per non parlare del pescespada, che viaggia sotto il pelo dell'acqua ed è oggetto di caccia grossa. Dunque, se queste sono le premesse, la cucina primaria e prelibata dei "mamertini" non può che essere il pesce.
Cominciamo dal pescespada [lo "xiphias" che i marinai della Magna Grecia cacciavano tremila anni or sono] e che è il piatto forte di due stagioni [la primavera e l'estate]. Si può cucinare saltato in padella, imbevuto di "salmoriglio" [salsa calda di olio, prezzemolo, acqua e aglio], in grossi blocchi al forno, in involtini, al ragù con cui poi inondare piatti di spaghetti. Quando l'estate sta per finire lo "xiphias" lascia il posto alle costardelle, — un ottimo pesce azzurro [è un pescespada in miniatura] da mangiare fritto con rotelle di cipolla rossa cruda di Tropea. Seguono poi pesci come le spigole e i merluzzi che altrove pare abbiano perso sapore e che qui [penso, ad esempio, a quelli pescati davanti al porto di Reggio] hanno il gusto del tempo perduto. E ancora, snelle cernie, lupi e grandi scorfani, triglie di scogli. Infine, in inverno, una nuova ondata di pesce azzurro, i palamiti e i mutuli, che vanno conservati, a tocchi, sott'olio. Ma c'è un altro pesce azzurro che non è giusto dimenticare; era pesce dei poveri e non sempre si trova nelle trattorie. E' la spatola, una vera e propria spada d'argento che prolifica, come il raro, prelibato piccolo pesce rosso "surice", in alcune secche al largo del versante calabrese. Nelle case la spatola si cucina, tagliata in pezzi aperti come piccoli libri, in tortiera oppure, passata nell'uovo e infarinata, in croccanti cotolette. Vi sono spatole che superano anche il metro e mezzo di lunghezza, ma la carne è fine e delicatissima.
Ebbene, di questa antica cucina del pesce dello Stretto è ospite, da circa due secoli, una materia prima del profondo Nord dell'Europa che i moderni mamertini, e solo loro, hanno saputo trasformare in un cibo arabo. E' lo "stock-fish", il pescestocco o stoccafisso, grazie al quale la Norvegia ha dato una mano, già ai tempi di Ferdinando IV di Borbone, all'alimentazione degli abitanti del Regno delle Due Sicilie e da allora è rimasto un piatto per tutte le stagioni. A Messina, a Reggio e nei loro dintorni, il pescestocco è un oggetto di alta cucina. Sono grandi merluzzi seccati al vento dell'Artico ed esportati, legati a mazzi, in sacchi; in somma, un pesce-bastone che "rinviene" nell'acqua corrente e, dopo qual che giorno di bagno, è pronto per la cottura. Deve avere sedotto anche Garibaldi se è vero che quando, dopo la spedizione dei Mille lasciò il regno che aveva conquistato e partì per l'esilio di Caprera, si portò appresso un rotolo di pescestocco [e probabilmente anche le ricette messinesi e calabresi] e un sacco di fagioli.
Poiché in questo articolo mi occupo solo del versante calabrese dei cibi dello Stretto accennerò a Messina e dintorni solo per dire che lo stoccafisso è stato ed è l'elemento di raccordo delle due culture. Infatti, se Messina ha trovato la formula giusta ["alla ghiotta"] per cucinare lo "stock-fish" [in casseruola con le olive nere e capperi], la Calabria ha scoperto l'acqua giusta per bagnare il prezioso bastone.
"Gambero Rosso", Anno I n.9, Ottobre 1992
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