Nella rubrica “Ex Press” su un “manifesto” del 2006 Maria Teresa Carbone dava conto di un articolo di Eric Hobsbawm, il grande storico di recente scomparso, scritto in occasione dei 50 anni dalla rivolta di Budapest e dalla sanguinosa repressione sovietica. L’impressione che si ricava dai frammenti riportati è quella di un atteggiamento spregiudicato, pronto a correggere deformazioni indotte dall’ideologia e di contrastare luoghi comuni inveterati. Una delle tante lezioni di stile. (S.L.L.)
Eric Hobsbawm |
A chi se non a Eric Hobsbawm, il grande storico del secolo breve, la «London Review of Books» poteva chiedere di ricordare il '56 ungherese?
Lo studioso non si è tirato indietro e ha scritto un lungo articolo che comincia così: «La storia contemporanea è inutile a meno che non consenta alle emozioni di essere rievocate in piena tranquillità». Parole da tenere a mente quando episodi e vicende del passato prossimo vengono dissezionati non per essere meglio compresi, ma per gettare ombre più o meno sinistre sul nostro presente.
Proprio della rivolta ungherese, dunque, è arrivato il momento di parlare con la tranquillità auspicata da Hobsbawm, aiutati, fra l'altro, dall'uscita nel mondo anglosassone di diversi saggi di notevole valore, e in particolare di Failed Illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt, di Charles Gati, un testo eccezionale («outstanding») secondo Hobsbawm, che cita le quattro principali conclusioni cui Gati, uscito dall'Ungheria proprio in seguito al '56 e oggi docente alla Johns Hopkins University, è giunto dopo ricerche accurate: «Sono stati relativamente pochi gli ungheresi che hanno effettivamente combattuto contro il dominio sovietico, e il loro scopo era di riformare il sistema, non di abolirlo; ... alla rivoluzione è mancata una leadership efficace; ... i capi sovietici a Mosca sono stati tutt'altro che felici di intervenire»; e, infine, «gli Stati Uniti si sono rivelati al tempo stesso male informati e disinformati circa le prospettive di cambiamento, nonostante la propaganda americana sia stata assai provocatoria».
Commenta ancora Hobsbawm nel suo articolo: «Come potremmo oggi capire 'il curioso stato mentale' dei comunisti sotto il terrore di Stalin, uno stato - per usare le parole di Gati - che 'combinava angoscia permanente e sconfinato idealismo'?».
Le strade della storia sono a volte imperscrutabili, come quelle della provvidenza: non a caso lo studioso britannico conclude le sue considerazioni ricordando che a scegliere Gorbaciov come suo erede (e dunque indirettamente a determinare la fine dell'Urss) fu Jurij Andropov che, «ambasciatore sovietico a Budapest, era stato il più fervido sostenitore dell'intervento».
“il manifesto” 11.11.2006
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