L’occupazione del “Teatro Valle”, nella primavera dell’anno scorso a Roma, fu proclamata non tanto contro i tagli alla cultura da parte del governo di allora (peraltro confermati e, per alcuni versi aggravati, dal governo di adesso), ma più in generale per fermare la sistematica distruzione di intelligenza e creatività in almeno una generazione di “lavoratori cognitivi”. Dentro quella occupazione alcune decine di scrittori relativamente giovani sotto l’etichetta Generazione TQ (trenta/quarantenni) si riunirono in assemblea, proposero temi di discussione e documenti, si diedero perfino qualche forma di coordinamento. L’articolo dal “manifesto” che segue, di fine luglio 2011, dà conto del difficile proseguimento dell’esperienza, ma contiene riflessioni degne d’attenzione sulla produzione culturale in questo tardo capitalismo. (S.L.L.)
Gilda Policastro |
Rispetto alla plenaria dello scorso 29 aprile i TQ si sono dimezzati, hanno scritto i giornali, segnalando peraltro l'uscita dal gruppo, all'indomani della stesura dei primi documenti, di alcuni dei promotori dell'iniziativa. Tra le ragioni del dissenso interno o delle critiche che il movimento viene ricevendo dall'esterno vi è tanto la connotazione «politica» assunta dai TQ in corso d'opera, quanto il contrasto su alcuni punti specifici, a partire dall'adozione, nei documenti, di un linguaggio scarsamente «comunicativo». Ovvero: una lingua diretta e appropriata, che non abbia timore di risultare difficile o elitaria, a petto della semplificazione dei concetti dilagante in ogni settore della nostra vita pubblica e di una retorica politica ridotta alle formule martellanti o agli slogan da varietà.
In ambito culturale più che mai, con la capillare espansione della parresia della rete, s'impone il ripristino di un linguaggio che si contrapponga di netto alla livellante semplificazione dell'I like indiscriminato da social network, e che valga a riaffermare, stando al concreto dell'iniziativa TQ, l'idea che leggere non sia un'attività innocua né divertente: costa invece fatica, e questa fatica viene ripagata dalla scoperta di idee, pensieri o anche parole, perché no, indispensabili alla definizione e alla comprensione dei fenomeni del presente, oltre che allo smascheramento dei luoghi comuni spacciati per evidenze.
In ambito culturale più che mai, con la capillare espansione della parresia della rete, s'impone il ripristino di un linguaggio che si contrapponga di netto alla livellante semplificazione dell'I like indiscriminato da social network, e che valga a riaffermare, stando al concreto dell'iniziativa TQ, l'idea che leggere non sia un'attività innocua né divertente: costa invece fatica, e questa fatica viene ripagata dalla scoperta di idee, pensieri o anche parole, perché no, indispensabili alla definizione e alla comprensione dei fenomeni del presente, oltre che allo smascheramento dei luoghi comuni spacciati per evidenze.
Ad esempio: non è vero che in Italia non si legge, come dichiarano le statistiche, altrimenti il fatturato delle grandi holding editoriali non sarebbe in costante crescita, come sappiamo dagli studi di settore. In Italia non si legge Scuola di nudo di Walter Siti, forse, ma Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini si vende al supermercato coi taralli: entrambi si chiamano libri, ma si tratta di oggetti incommensurabili.
Niente di male, allora, se i TQ si propongono di sfatare la dogmatica indistinzione tra «prodotti commerciali» e «libri di qualità» che penalizza i secondi lasciando dilagare indisturbati i primi.
Ma, ci si è chiesti ancora, in basi a quali competenze e in spregio a quanti conflitti di interesse i TQ si ergerebbero a paladini del «gusto» (da recuperarsi, magari, a vero esito di una pratica di confronto, invece che mortificato a mero indice di gradimento soggettivo ed estemporaneo)? Molti di noi scrivono, si è detto, e alcuni di noi sono editori, redattori, direttori di collane. Ma il vero e solo conflitto di interessi si profila quando entrino in campo i profitti, quando favorire un libro piuttosto che un altro, a partire dalla tiratura iniziale (che, com'è poco noto, non viene decisa in base alla qualità, o alla «scommessa» dell'editore, ma a partire dal «prenotato» delle librerie, cioè da una previsione di vendita), e poi con le campagne orientate, con gli spazi televisivi riservati, con le recensioni ovunque oppure da nessuna parte, ne condiziona la vita e la durata, e, con queste, il peso e il ruolo dello scrittore nella società letteraria e nella società tout court. Hai venduto? Vali tanto. Non hai venduto? Vali meno ancora di prima.
Ma, ci si è chiesti ancora, in basi a quali competenze e in spregio a quanti conflitti di interesse i TQ si ergerebbero a paladini del «gusto» (da recuperarsi, magari, a vero esito di una pratica di confronto, invece che mortificato a mero indice di gradimento soggettivo ed estemporaneo)? Molti di noi scrivono, si è detto, e alcuni di noi sono editori, redattori, direttori di collane. Ma il vero e solo conflitto di interessi si profila quando entrino in campo i profitti, quando favorire un libro piuttosto che un altro, a partire dalla tiratura iniziale (che, com'è poco noto, non viene decisa in base alla qualità, o alla «scommessa» dell'editore, ma a partire dal «prenotato» delle librerie, cioè da una previsione di vendita), e poi con le campagne orientate, con gli spazi televisivi riservati, con le recensioni ovunque oppure da nessuna parte, ne condiziona la vita e la durata, e, con queste, il peso e il ruolo dello scrittore nella società letteraria e nella società tout court. Hai venduto? Vali tanto. Non hai venduto? Vali meno ancora di prima.
L'anima dei TQ con cui mi sento maggiormente in sintonia esprime il desiderio di mettere a disposizione di altri, se non di tutti, gli strumenti di analisi critica che alcuni di noi hanno acquisito attraverso le rispettive formazioni, provando a estendere, tra l'altro in linea con un dibattito avviato altrove da decenni (andando da Bourdieu a Schiffrin), ai «libri di qualità» una serie di possibilità (l'ospitata tv, le recensioni, ma soprattutto i famigerati «premi») oggi appannaggio di pochissimi editori/autori, in un circuito chiuso e ristretto che prelude ampiamente alla «monocultura» o «desertificazione» dei ripetuti allarmi di Schiffrin.
Pur con tutte le differenze e le contraddizioni interne che i TQ saranno chiamati a dibattere ed affrontare d'ora in poi, che si provi a orientare la comunicazione verso la cultura e non il contrario, è bene che sia, adesso come adesso, ed esattamente a partire dal linguaggio, l'obiettivo primario.
“il manifesto” 29.07.2011
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