Le più di 1.400 pagine dell'opera di Isaak Babel che Mondadori raccoglie nei «Meridiani» sono una storia della Rivoluzione russa e delle sue conseguenze: c'è molta energia e molta poesia; c’è odore di guerra e di cavalli, di cipolle e di aringhe; ci sono fame, freddo e sangue.
Un'opera che Adriano Dell'Asta, perfetto curatore del volume, ci presenta nella sua frammentata interezza: racconti editi e inediti, lo straordinario diario dei mesi trascorsi nel 1920 con i Cosacchi in Ucraina come corrispondente di guerra, scritti giornalistici, opere teatrali e sceneggiature cinematografiche, una raccolta che testimonia l'ecletticità e la tragicità dell'esistenza di Babel. Scritti in prosa, mirabilmente tradotti da Gianlorenzo Pacini, che si leggono come poesie, cesellati nello stile, inondati di sole: è lo stesso Babel a notare che «nella letteratura russa non c'è una descrizione del sole veramente gioiosa, limpida strade grigie e nebbia hanno soffocato gli uomini». I racconti di Babel, come i quadri di Marc Chagall, cantano di cieli tersi e stelle luminose, di violinisti e di angeli. Scoperto da Maksim Gor'kij, che pubblica i suoi primi racconti nel 1916, Isaak Babel lascia Odessa dalle «dolci serate primaverili» e «dall'acre profumo di acacia» per trasferirsi a vivere a Pietrogrado senza permesso di soggiorno. Ben presto diventa famoso con l'Armata a cavallo, l'opera che sovrasta tutta la sua produzione, cronaca violenta e poetica della vita quotidiana dei soldati della I Armata di cavalleria sovietica durante la campagna polacca del 1920... L'Armata come mezzo di integrazione? Dai vari racconti emergono le diverse persone del loro autore: un ebreo dall'educazione ortodossa, un russo che credeva in un sistema nuovo che avrebbe trionfato sull'antisemitismo, un intellettuale «quattrocchi» che ammira criminali e uomini d'azione e descrive la violenza con romantico realismo. «Tu guardi al mondo attraverso i tuoi occhiali», dice il comandante al protagonista-narrante Kirill Ljutov, discreto alter-ego di Babel: gli «occhiali sul naso» sono di grande importanza nell'idea che Babel aveva di se stesso e della letteratura.
La rivincita del cavallo
Lo scrittore, l'intellettuale, non vede a occhio nudo, ha bisogno di uno schermo che lo distanzi dalla realtà. «L'ebreo con gli occhiali sul naso e l'autunno nell'anima»: questa espressione è diventata quasi il suo ritratto. Per Babel vedere equivale a raccontare, oscillando tra l'orrore suscitato dalla guerra e l'ammirazione per i compagni, capaci di gesti generosi, con il loro stile, la loro forza, le giacche militari sfavillanti e i cavalli. Babel scrive di cavalli in modo straordinario, l'Armata a cavallo «è la rivincita del cavallo letterario russo, un cavallo umiliato e offeso», come ebbe a dire lo studioso Vittorio Strada. La violenza dell'Armata è una violenza naturale, sfrenata, «preludio della felicità», ben diversa da quella violenza pianificata, moralmente ingiustificabile, che in seguito avrebbe annientato Babel e tanti altri uomini «con gli occhiali sul naso» come lui. Nell'Armata a cavallo l'ebreo Gedali dice che «la rivoluzione è un'opera buona di uomini buoni, ma gli uomini buoni non uccidono». La «dolce rivoluzione» del mite rigattiere Gedali è anche quella di Babel, come ci ricorda Serena Vitale nell'avvincente scritto che apre il volume, ma la catastrofe subita dal mondo ebraico nel suo scontro con la rivoluzione e con la storia sarà totale. In un racconto incompiuto, L'ebrea, Boris, uomo del futuro, ebreo diventato bolscevico di successo, di fronte alla morte della sua terra natale, al venir meno di «quella vita indifesa», convince la madre e la sorella a seguirlo a Mosca; viaggiano su un treno di prima classe, avranno un appartamento con il frigorifero e il fornello a gas, ma Boris si domanda: «E' la fine o la rinascita?». Oppresso dall'angoscia non trova la forza di rispondere a quella domanda, così come Babel ne cercherà la risposta per tutta la vita.
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