L'intervento che segue del gennaio 2011, di Gilda Policastro, una intellettuale e scrittrice divenuta poi una degli animatori della cosiddetta Generazione T/Q, mi pare notevole non solo per vigore critico e polemico, ma anche per la capacità di storicizzazione, che a me pare non comune tra gli scrittori italiani delle nuove generazioni, non esclusi quelli che Policastro cita con consenso. (S.L.L.)
Edoardo Sanguineti con Gaia Servadio al Convegno del Gruppo 63. Solunto (Palermo), Hotel Zagarella, 1963 |
ESORDIENTI ALLO SBARAGLIO
Abbiamo tutti in mente il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno, un «primo libro» che non esauriva affatto le potenzialità del suo autore e, anzi, bastava appena a dar conto dell'esperienza che vi culminava e della necessità di raccontarla.
La Prefazione al Sentiero data 1964, più o meno coeva a due esordi narrativi diversissimi dal Sentiero, quelli di Edoardo Sanguineti e di Giorgio Manganelli. Sanguineti nel '63 ha trentatré anni, ha già pubblicato un libro di poesia, Laborintus, nel '56, in cui ha stravolto l'aspetto referenziale della lirica tradizionale, componendo in un collage linguistico abnorme lacerti di reale e materiali verbali attinti prevalentemente al sostrato psichico; e pochi anni dopo, nel '61, un libro dantesco altrettanto dirompente, che in polemica col Croce «esteta» propone una lettura della Commedia in chiave di «romanzo teologale», rivalutando la cosiddetta «struttura» su cui gravava appunto l'interdetto crociano. Quando Sanguineti pubblica Capriccio italiano nessuno gli fa sconti perché è un giovane esordiente, e del resto probabilmente a trentatré anni non si era allora giovani scrittori, né tantomeno Sanguineti poteva dirsi un esordiente, appunto.
Compartimenti stagni
Forse non tutti oggi conoscono Capriccio italiano, che scuola e università emarginano, con tutta la neoavanguardia, dai corsi rimasti fermi praticamente ai programmi Gentile, e l'editoria punisce con l'estromissione dai cataloghi (non fosse per la raccolta Smorfie che nel 2007 lo ha riproposto, insieme agli altri due romanzi e ad altre scritture in prosa di Sanguineti - ma è pur essa largamente introvabile): la «storia del parto di un padre», come l'autore lo definì in qualche occasione. E quel parto, intuiva un critico provvisto degli adeguati strumenti psicoanalitici come Giacomo Debenedetti, era nient'altro che il romanzo stesso, terzo figlio dell'autore, dopo il libro in poesia e il saggio dantesco.
Il problema principale del discorso letterario, oggi, è la concezione per compartimenti stagni del sapere e delle sue forme di condivisione. Sanguineti o Pasolini non avrebbero certo dovuto motivare o distinguere i diversi ambiti e aspetti delle rispettive scritture, transitando agevolmente dalla poesia alla narrazione alla saggistica ai corsivi e persino alla televisione, o nel caso di Sanguineti alla musica (con escursioni dall'opera al rap), e per Pasolini al cinema. Ma dopo quegli anni fervidi di sperimentalismi e contaminazioni, alla conoscenza vengono imposti in modo netto e non travalicabile degli steccati rigidi: lo scrittore può far così solo lo scrittore, il critico solo il critico (cioè il supremo inutile, dal momento che non sposta le vendite, il vero asse portante dell'attività letteraria oggidiana).
Da quando ho pubblicato un romanzo, in più di un'occasione mi è stato chiesto se avessi ormai intenzione di dedicarmi esclusivamente alla narrativa, o se, addirittura, la precedente attività di critica non mi fosse servita solo come una fase di preparazione. Questo è un modello, tra l'altro, molto americano, se si pensa ai tanti scrittori in grado, oltreoceano, di vivere della loro attività - non qui. In Italia il modello americano dello scrittore di qualità che è anche scrittore di successo (da Roth a Franzen) non sembra riproducibile intanto per le condizioni di marginalità assoluta in cui si è ridotto via via il campo letterario. Inoltre, se si pone mente alla stagione delle grandi polemiche letterarie, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, e si scorrono le testimonianze dell'epoca (dai resoconti dei famigerati convegni della neoavanguardia, alle polemiche tra Pasolini e Sanguineti, Sanguineti e Fortini, Fortini e Pasolini), ci si trova a constatare due fenomeni di segno opposto: anzitutto come all'interno di uno stesso schieramento le posizioni fossero molto meno omogenee di quanto non si tenda a credere (si pensi alla linea Eco-Barilli, fenomenologica, e alla linea Sanguineti- Balestrini, ideologica, all'interno della stessa neoavanguardia, a tacere dei tangenziali ma coevi e a tratti consentanei Manganelli, Malerba, Rosselli e via dicendo). Ma poi, al tempo stesso, si nota come quei contrasti violenti tra le forme della sperimentazione sostenute dalla rivista «Officina» sotto l'egida di Pasolini e Fortini, e quelle del «sabotaggio» neoavanguardista del «Verri», apra in realtà un gap molto meno profondo di quello che divide oggi i due grandi schieramenti, della letteratura di mercato e dalla letteratura di qualità.
La categoria delle Liale
È questo quadro sostanzialmente ridotto a un'opposizione bipolare che approfondisce oggi la frattura tra «scrittori» (o «scriventi», per dirla con Malerba) e «autori», rendendo sempre più impensabile la commistione degli ambiti di azione all'interno dell'orizzonte ultimo: quello di chi riconosce alla letteratura uno statuto di verità e una forza di resistenza residuale, rispetto al negativo della storia e del mondo in cui si vive. Ma se lo scrittore nostrano ha abdicato a questa funzione di opposizione e di resistenza, abbracciando incondizionatamente l'ottica commerciale dell'intrattenimento, perlomeno nella concezione/percezione comune, il discrimine tra editoria di qualità e di mercato finisce con l'assottigliarsi fino a scomparire, dal momento che solo i libri dei grandi gruppi editoriali riempiono gli scaffali, stampandosi in partenza in una quantità di copie funzionale a un lancio su vasta scala del prodotto nei media, moltiplicatori eccezionali di vendite. (Si sanno ovviamente i nomi dei programmi televisivi e degli spazi sulla stampa che abbiano ancora un qualche potere di influenza sulle vendite, e li si riserva o ai grossi autori, che di quei lanci portentosi in teoria non avrebbero bisogno, o agli esordienti assoluti, trasformati in «personaggi» per spingere le vendite e dar ragione all'investimento iniziale).
Proviamo a chiedere in giro il nome di uno scrittore giovane: difficilmente ci sentiremo rispondere Giuseppe Schillaci o Gian Maria Annovi, rispettivamente ottimo esordiente nel campo della narrativa e sicura conferma per i lettori di poesia. Più verosimilmente i nomi saranno quelli degli scrittori ospiti dei salotti televisivi, per i quali sarebbe utile cominciare a pensare a un'altra categoria, perché se Edoardo Sanguineti si teneva assai a disagio entro quella che comprendeva assieme a lui le famigerate Liale, non potrebbe certo riadattarsi a compartecipare, oggi, della stessa categoria di Giordano o di Avallone.
Andate e ritorni
E torniamo allora agli esordienti: nessuno sa dire - o meglio: chi studia la letteratura contemporanea non si è mai posto il problema di saperlo - quale posizione della classifica di vendita abbia occupato Capriccio italiano, o quante copie abbia venduto esattamente, all'uscita. E ricordiamo la boutade rimasta celebre di Arbasino che rivendicava la differenza tra consumo e lettura: basarsi sul consenso stabilito dalle vendite, sarebbe stato come eleggere a ristorante migliore al mondo il Mc Donald's. Oggi di un libro si scrive quasi solo questo, e del resto le copie vendute sono inevitabilmente proporzionali alla quantità delle copie prodotte, e promosse, e lanciate sul mercato: cos'altro conta?
L'esordio, dunque. Nel recente Meridiano dedicato ad Arbasino si ricorda come l'editore Einaudi gli avesse raccomandato di tenere da parte l'Anonimo lombardo (che uscirà poi di fatto due anni dopo con Feltrinelli), dando alle stampe primariamente le meno dirompenti Piccole vacanze. Il criterio seguito oggi dagli editori è esattamente opposto: si va dritti al libro che possa costituire un successo o un caso, senza curarsi di un possibile scouting di autori, o di un percorso di crescita artistica: si pensi al caso di Franco Arminio, autore che non a caso esce a tutt'oggi (trent'anni dopo il suo esordio, cioè) con editori piccoli e medi come Le lettere o nottetempo: «Il mio - dice lo scrittore - è stato un esordio infinito, che forse non si è ancora concluso. Ho pubblicato il mio primo libro nel 1985, una raccolta di versi intitolata Cimelio dei profili, sessanta piccole poesie. Affidai il compito a Valerio Magrelli, che le scelse tra un numero molto più ampio: già a quell'epoca ne avevo scritte almeno tremila».
Se il caso di Arminio può apparire anomalo, trattandosi di un autore di prosa antitetico rispetto all'idea commerciale di «romanziere», negli ultimi anni si sono registrati, felicemente, l'esordio di Laura Pugno e di Giorgio Falco, provenienti entrambi dall'editoria di ricerca (la collana «Indicativo presente» di Sironi) e approdati a Einaudi. Singolare il caso di Pugno, che dopo l'ottima accoglienza di critica ricevuta con il primo romanzo, Sirene, è tornata con il secondo, Quando verrai, a un'editoria più o meno piccola (Minimum Fax). «Nulla di strano» spiega la scrittrice. «Con Minimum Fax c'era una consuetudine che durava da tempo: insieme a Marco Cassini (fondatore e direttore editoriale con Daniele Di Gennaro della casa editrice, ndr), Vincenzo Ostuni, Simone Caltabellota e altri, partecipavamo a un laboratorio aperto di poesia nei primi anni '90, e quindi è stato naturale fare prima o poi qualcosa insieme». Giorgio Falco ricorda invece come già dopo l'esordio a RicercaRe, nel 2002, con dei brani di quello che sarebbe diventato Pausa caffè per Sironi, fosse stato contattato proprio da Einaudi: «Ma avevo dato la mia parola a Giulio Mozzi. Ero contento di partecipare alla sua collana».
La funzione dei piccoli editori - e di occasioni uniche e purtroppo in dismissione, come il laboratorio di scrittura RicercaRe, cambiatosi poi in RicercaBo, con la mutata dislocazione geografica - nell'ambito dello scouting editoriale è stata senz'altro meritoria nell'ultimo decennio: ricorda Tommaso Pincio di aver messo mano, nel '97, «a un ambiziosissimo quanto sconsiderato romanzo per il quale avevo preventivato una ventina d'anni di lavoro. Da quell'informe e incompiuto delirio ricavai M., il romanzo che ha sancito la mia nascita come scrittore. Fu pubblicato da un piccolo ma validissimo editore napoletano, Cronopio, grazie all'interessamento di Gabriele Frasca. Va poi ricordato che l'anno prima, il 1998, avevo partecipato a RicercaRe, segnalato da Tommaso Ottonieri».
Prodotti sociali e/o seriali
Ma quanto interessano ancora agli editori la scrittura, e, insieme ad essa, le forme, i modi, l'idea del mondo, l'orizzonte di senso? E quanto interessa alla comunità letteraria, ammesso che in qualche forma resista, il lavoro dei critici attorno ad alcuni autori, e, prima ancora, degli autori stessi attorno a certi temi (la mutazione di Pugno, l'ipocondria di Arminio, l'universo classicamente pop di Pincio)? Quanto invece risulta pernicioso e infertile ridurre l'autore a macchina da libro - ve ne sono, di scrittori appena quarantenni, con all'attivo almeno una ventina di libri (dobbiamo ricordare che Manganelli a quarant'anni aveva appena dato alle stampe il suo primo, Hilarotragoedia, dopo una gestazione ventennale?) o a «scrittore su cui puntare»? E ricominciare a parlare dei libri a partire dai libri, può riavvicinare la letteratura alla nostra epoca e alla sua storia, e dirne più del prodotto sociale (sed seriale) cui si è ridotto il romanzo da classifica contemporaneo?
Quesiti per ricominciare a leggere, e poi, con parsimonia, a scrivere: esordienti, ed esorditi.
“il manifesto”, 20 gennaio 2011
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