7.1.13

"Crónicas". Un ibrido letterario (di Francesca Lazzarato)

Leila Guerriero
In spagnolo si chiama crónica, ma non c'entra niente con i faits divers dei francesi o con la nostra cronaca nera. È invece, qualcosa che sta a metà tra giornalismo e letteratura, ovvero, secondo alcune definizioni correnti, un modo di narrare storie assolutamente vere partendo da una accurata indagine giornalistica, ma usando strumenti e tecniche che consentono di leggere la realtà come un racconto. Un ibrido, insomma: la faccia più letteraria del giornalismo o semplicemente una creatura rara e bizzarra, visto che il messicano Juan Villoro (uno dei migliori scrittori latinoamericani di oggi, autore di crónicas eccellenti come El miedo en el espejo, sul terremoto in Cile, edito quest'anno da Candaya) la paragona a un «ornitorinco della prosa».
Genere intensamente praticato in America Latina a partire dagli anni '60, sia da scrittori-giornalisti che da giornalisti-scrittori (ognuno dei quali parte dalla propria riva per approdare a quella di fronte, dopo averla lungamente osservata, dice Leila Guerriero) la crónica è oggi al centro di un interesse che ha dato vita a incontri come quello tenuto all'inizio dell'anno all'Hay Festival di Cartagena, o al recentissimo «Encuentro de Narrativas de Realidad», organizzato al Cceba di Buenos Aires: luoghi in cui la si celebra, la si analizza, se ne ripercorre la storia, e su cui aleggia ovviamente lo spirito di grandi autori del passato, a cominciare da Rodolfo Walsh, grande giornalista e militante montonero desaparecido nei primi anni della dittatura, o dallo straordinario critico e scrittore messicano Carlos Monsiváis, scomparso più o meno un anno fa, o ancora, tanto per fare un esempio tutto europeo, dal polacco Ryszard Kapuscinski.
Anche in Italia, ormai, l'interesse per la crónica è sufficientemente cresciuto per dar vita a una collana ad hoc, ossia «Cronache di Frontiera», proposta dalla casa editrice La Nuova Frontiera, che esordisce con la riedizione di uno dei più importanti libri di Walsh (Operazione Massacro, pp. 256, euro 12, su una strage di civili compiuta dalla prima giunta militare antiperonista), proprio in concidenza con la presenza al Festival di Internazionale di tre famosi giornalisti latinoamericani, che oltre a presentare i loro nuovi libri parteciperanno oggi a «Un posto in prima fila. L'America Latina raccontata in punta di penna», dibattito che si terrà alla 17 nel cortile del Castello.
Due di loro sono argentini: Martín Caparrós, autentico veterano della crónica, e Leila Guerriero, molto giovane e molto brava (in Italia è uscito nel 2007 da Marcos y Marcos il suo Suicidi in capo al mondo. Cronaca di un paese della Patagonia), vincitrice nel 2010 del premio della Fundación Nuevo Periodismo creata da García Márquez, per aver scritto venti bellissime pagine sull'Equipo Argentino de Antropologia Forense, che dal 1984 cerca di restituire l'identità non solo ai desaparecidos durante l'ultima dittatura, ma anche a quelli di paesi come il Perù, El Salvador e la Colombia (fu l'Eaaf a identificare in Bolivia, tredici anni fa, i resti di Che Guevara).
Con loro ci sarà Amalia Guillermoprieto, messicana trapiantata negli Stati Uniti, che dagli anni '80 a oggi non ha mai smesso di raccontare (in inglese) l'America Latina ai lettori statunitensi, dalle pagine prima del «Washington Post», poi di «Newsweek» e infine del «New Yorker»: una grande giornalista e una narratrice che, mossa da una curiosità divorante e dal desiderio di narrare il mondo (il che significa in qualche misura contribuire a cambiarlo), occupa da più di trent'anni quel «posto in prima fila» che il suo mestiere le garantisce…
Se il mondo è (anche) come ce lo raccontano, le crónicas brillanti e suggestive della Guillermoprieto, come quelle misuratissime di Leila Guerriero e quelle forti e intense di Martìn Caparròs, sono indubbiamente uno strumento per evocare, leggere e interpretare la realtà, diverso, perché più articolato, più audace, più ricco di sfumature, più attento alla forma, più incline all'ascolto, del giornalismo tradizionale. Ma che a esso resta legato e che parte da una medesima base (inchiesta, ricerca, verifica), rinunciando sia a una oggettività impossibile («la neutralità non serve a nulla e significa semplicemente scaricare le proprie responsabilità», dice Martín Caparrós), sia alle pericolose tentazioni dell'intrattenimento…

“il manifesto”, 1° ottobre 2011

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