A un anno dalla morte di
Pier Paolo Pasolini “Nuova Generazione”, il giornale della Fgci
(a quel tempo guidata da Massimo D'Alema), dedicò un un inserto al
poeta assassinato (Pasolini un anno dopo), curato da Gian
Carlo Ferretti e ricco di importanti contributi. Esso contiene, tra
l'altro, un intervento di Giovanni Berlinguer al festival dell'Unità
svoltosi al Pincio nel settembre di quell'anno, in cui venne
proiettato il primo documentario filmato su Pasolini firmato da
Bernardo Bertolucci, Ettore Scola e Maurizio Ponzi. (S.L.L.)
Pasolini in borgata |
Io non sono uno scrittore
né un critico come Moravia, Siciliano, Arbasino. Vorrei parlare del
rapporto politico-culturale che ha avuto Pasolini con il Partito
Comunista. Oggi molti giornali discutono del rapporto tra gli
intellettuali e il partito comunista, domandandosi innanzitutto
perché tante forze intellettuali si sono orientate verso i comunisti
(lo ha dimostrato il 20 Giugno). Noi stessi ci interroghiamo su
questo fenomeno nuovo nella vita politica e culturale dell'Italia, e
facciamo anche le nostre autocritiche, evitiamo di lasciarci
trascinare dall'euforia.
Ricordiamo che 10 o 20
anni fa questo rapporto era più difficile, vi erano meno
intellettuali vicini al partito comunista, e questi venivano vilipesi
da Scelba, dai suoi amici, chiamati «utili idioti». Invece, la
ragione principale della nostra forza nella cultura italiana sta
proprio nel fatto che noi innanzitutto non vogliamo che gli
intellettuali siano degli idioti, li preferiamo colti ed
intelligenti; e non vogliamo neppure che siano immediatamente utili,
cioè ossequiosi, che siano cassa di risonanza delle posizioni
politiche comuniste. Li vogliamo e li preferiamo imbarazzanti,
scomodi, stimolanti come è stato Pier Paolo Pasolini, e come sono i
romanzi, i racconti, le critiche di Alberto Moravia, come sono le
parole che ci hanno qui detto Arbasino e Siciliano.
Anche il rapporto che ha
avuto Pasolini con il Partito Comunista e con la gioventù comunista
è sempre stato un rapporto travagliato, complicato, nel quale è
cambiato Pasolini e siamo cambiati noi stessi. L'immensa carica di
simpatia e di polemiche che vi sono state intorno alla sua figura,
all'interno stesso delle file comuniste, assieme al coro di dolore e
di sconforto che ha accompagnato la sua morte, sono la dimostrazione
di quanto sia cambiato questo rapporto nel corso degli anni.
Vorrei citare come
esempio di contributo e di stimolo, che si è realizzato tra molti
contrasti, quello che Moravia chiamava il marxismo di Pasolini,
sempre associato al suo populismo, al suo rapporto così istantaneo e
così diretto con gli strati più poveri, i sottoproletari tanto
numerosi alla periferia di Roma e nelle sue borgate. Pasolini ha
avuto verso questo popolo delle borgate un rapporto di simpatia e di
profonda comprensione morale e intellettuale. Noi, come partito
politico, abbiamo avuto fin dagli anni della Resistenza e poi negli
anni delle grandi lotte per il lavoro e per la casa e nelle lotte per
la democrazia un rapporto di analisi e di mobilitazione politica;
e possiamo dire che come Pasolini è stato un «revisionista» nella
letteratura, così noi siamo stati «revisionisti» in politica. Se
ci fossimo attenuti al giudizio che davano i classici del marxismo,
se li avessimo fossilizzati, avremmo dovuto ricordare che il
Manifesto del partito comunista del 1848, l'atto di nascita
del nostro movimento, definiva i sottoproletari come la putrefazione
passiva degli strati più bassi della vecchia società. E avremmo
dovuto ricordare come Engles ci ammoniva che, per mantenere la
purezza delle forze rivoluzionarie, era necessario anzitutto tenerci
alla larga da questa banda. Egli diceva: «Ogni dirigente della
classe operaia che usa questi straccioni, solo per questo dimostra
già di essere un traditore del movimento». Invece questi
straccioni, i ragazzi che Pasolini descriveva nei suoi romanzi, in
una Vita violenta, in Ragazzi di vita, questi
sottoproletari, questi semioccupati delle borgate romane sono stati
una forza fondamentale nella crescita politica e culturale della
capitale d'Italia. Hanno fatto in modo che Roma, e adesso anche
Napoli, diventassero città vive, democratiche, aperte. Hanno
dimostrato di non essere soltanto una putrefazione della vecchia
società, ma anche la forza che portava una tradizione, una
continuità storica con un passato contadino e popolare della quale
le classi lavoratrici dovevano rendersi interpreti, con la quale
dovevano stabilire un collegamento. Questo ruolo rinnovatore che
vanno assumendo fra molti contrasti le classi sottoproletarie nella
vita politica, è stato possibile per la presenza di un movimento
politico dei lavoratori, e perché ci sono state forze intellettuali
come Pier Paolo Pasolini che hanno portato una carica di solidarietà
umana, una capacità di assimilazione intellettuale, ma soprattutto
l'intuito di vedere quanto sorgeva di nuovo, quanto più ampie che
nel passato fossero le possibilità di conoscere e di trasformare la
nostra società.
In questi ultimi tempi
Pier Paolo Pasolini ha accentuato molto quello che alcuni hanno
definito pessimismo, e che forse è meglio chiamare allarmismo, sulle
sorti dell'Italia. Ha accentuato il suo lamento civile, il suo
appello al senso di vigilanza su tutti i fenomeni degenerativi che si
stavano affacciando nella nostra società. C'è ragione per
raccogliere questo appello, perché, diciamolo con franchezza, Roma
certo è oggi la città che ha per la prima volta dopo sessant'anni
un'amministrazione democratica di sinistra, ma è anche la città
dove si continua a scatenare una violenza selvaggia, e in cui ci sono
forti elementi di degradazione che rischiano di prevalere.
I giovani, ai quali si
rivolgeva Pasolini, dimostrano combattività politica e tensione
intellettuale; ma presentano anche rischi di ripiombare
nell'individualismo, nella lotta per sopravvivere, per cercare un
lavoro in questa società che offre così scarse occasioni. Sono
certo che, essendo stato così vicino al partito comunista e
soprattutto alla federazione giovanile comunista italiana, Pasolini
avrebbe esultato come tutti per i risultati elettorali del 20 giugno,
ma avrebbe continuato quella provocazione intellettuale che ci
impedisce di adagiarci. Ora, questa provocazione intellettuale deve
costituire compito di ciascuno di noi, per stimolare continuamente
alla riflessione e per evitare autocompiacimenti che sarebbero tra
l'altro completamente ingiustificati, viste le difficoltà che
attraversa l'Italia, e visti anche i nuovi compiti che ha oggi il
movimento operaio e popolare.
Vogliamo continuare la
provocazione, senza avere naturalmente l'efficacia polemica e la
capacità incisiva che aveva Pier Paolo Pasolini nei suoi scritti, né
la sua spregiudicatezza intellettuale, ma cercando la sua medesima
tensione e la medesima capacità di scuotere.
Vorrei fare un esempio,
riprendendo il tema degli ultimi scritti di Pasolini sul rapporto tra
i giovani e il lavoro. La sua provocazione è stata «aboliamo la
scuola dell'obbligo», perché sta introducendo, nell'animo di
giovani provenienti da famiglie di lavoratori, stimoli, desideri,
ambizioni da un lato false e dall'altro irrealizzabili.
In questo ragionamento,
che egli conduceva per assurdo, c'è un fondo di verità: guardiamo
alla scarsa produttività, non solo in termini economici ma spesso
anche conoscitivi, culturali, della scuola italiana; guardiamo al
decadere dell'industria, dell'agricoltura, della formazione delle
risorse del nostro paese. Dobbiamo constatare certo le grandi colpe
delle classi dominanti, vedere quanto sia difficile per i giovani
trovare un'occupazione renderci conto che la società non offre quasi
alcuna occasione, riaffermare che il lavoro in fabbrica è molto
spesso nocivo, logorante, e che il lavoro dei minori, il lavoro nero
rappresenta tutt'ora una piaga, una strage.
Ma domandiamoci se non
c'è anche una distorsione nelle aspirazioni dei giovani. Io ho visto
per esempio i risultati di un'indagine a Modena, la città dove ai
tempi di Scelba sei operai furono uccisi perché difendevano la loro
fabbrica, il posto di lavoro. Adesso l'inchiesta campione fatta tra i
giovani, ha rivelato che soltanto il 40 % era disposto a un lavoro
manuale pagato il doppio, rispetto ad un meschino lavoro impiegatizio
pagato la metà. Domandiamoci se non c'è anche una distorsione nella
mentalità dei giovani, che noi stessi forse abbiamo contribuito a
creare. C'è una fuga dal lavoro produttivo: prima dal lavoro
agricolo nei decenni trascorsi, ed ora anche dal lavoro industriale.
C'è una difficoltà nel
fare una lotta politica, sindacale, culturale efficace per la
trasformazione dell'Italia, perché poi manca la forza viva che attua
questa trasformazione. Domandiamoci se qualche volta, anche nei
movimenti politici dei giovani, non vi è un'esaltazione dei
lavoratori quando lottano per motivi sindacali e politici, e invece
un deprezzamento e, a volte perfino un altezzoso senso di superiorità
per i lavoratori quando producono: si trascura il fatto fondamentale
che le classi lavoratrici sono potenziale guida della società in
quanto producono le ricchezze di cui vengono espropriate dal
capitale, in quanto, per intenderci con il linguaggio marxista,
producono valore oltre che plusvalore; e prendono coscienza di essere
i produttori fondamentali di valore, e per questo aspirano con
legittimo diritto a trasformare tutta la società.
Se si perde questo
collegamento tra la classe lavoratrice come forza produttiva, e la
classe lavoratrice come forza rivoluzionaria, tutta la politica
diventa retorica, e propaganda, perde di una forza reale.
Anche su questo bisogna
riflettere, perché è su questa capacità produttiva che si basa non
solo la forza sindacale e politica dei lavoratori, ma anche la sua
grande capacità di attrazione ideale e di stimolo verso le forze
intellettuali. Questo è il punto di riferimento anche per coloro che
vengono da altre culture, che hanno vissuto le loro esperienze nelle
piccole città, nelle campagne, in contatto con valori del passato
che le classi lavoratrici vogliono recuperare e trasformare. In
questo si trova la forza di collegamento del movimento operaio verso
tutti i movimenti rinnovatori della cultura; in questa capacità di
cambiare fino in fondo l'Italia e il mondo, per riprendere la
tensione ideale e lo stimolo della poesia civile di Pier Paolo
Pasolini.
"Nuova Generazione", ottobre 1976
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