Nel settembre del 1985 la
Federazione Giovanile Comunista Italiana, nel decennale della morte
del poeta, organizzò a Roma un grande meeting dedicato a Pier Paolo
Pasolini, dal titolo La disperata passione di essere nel mondo.
Uno dei temi di più intenso dibattito, nel corso della
manifestazione e nella stampa comunista di quei giorni, fu il
Pasolini “impegnato”. Si parlava di Pasolini, ma si parlava
direttamente e indirettamente anche del Pci, che – come si diceva a
quel tempo – Enrico Berlinguer aveva lasciato a metà del guado.
Qui riprendo una cronaca curata da Federico De Melis per “il
manifesto”. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini con Franco Citti durante la lavorazione di "Accattone" (1961) |
Il travaglio del Pci
davanti al dilemma «fuoriuscita dal» o «gestione del» capitalismo
ha trovato modo di esprimersi, la
settimana scorsa, al meeting La disperata passione di
essere nel mondo, organizzato a Castel Sant'Angelo a Roma dalla
Fgci per il decennale della morte di' Pasolini. Occasione per una
discussione più stratificata sarà invece, dal 15 ottobre, la
megamanifestazione romana Una vita futura, organizzata dal
«Fondo Pasolini».
Se la denuncia intorno
alla quale ruota l'opera di Pier Paolo Pasolini dagli ultimi anni '60
alla metà dei '70 è quella dell'«omologazione culturale», cioè
della distruzione delle culture «particolaristiche» sotto il segno
del consumo, appare evidente perché ancora oggi il Pci, e nella
fattispecie la sua federazione giovanile, si interroghi così
ansiosamente con quell'opera.
Lo ha evidenziato Alberto
Asor Rosa nel corso del suo intervento al dibattito di giovedì
scorso «'Fuori dal Palazzo'. Intellettuali e potere»: gli
anni che vanno dal '68 al '75 hanno rappresentato la stagione d'oro
della sinistra italiana, ed è in particolare in questi anni che
prende forma lo scandalo pasoliniano per l'«universo orrendo» dei
bisogni indotti e spersonalizzanti. Nella sua Abiura alla trilogia
della vita (compresa in Lettere luterane), scritta qualche ora
prima del trionfo comunista alle elezioni regionali del giugno '75,
Pasolini prevedeva quel trionfo, ma insieme lo interpretava come un
progresso non reale, ma apparente, che rinviava a modificazioni nel
corpo culturale del paese di cui piuttosto ci si sarebbe dovuti
disperare: modificazioni peraltro irreversibili in quanto avevano
cancellato (e non integrato) il passato rappresentato dal mondo
contadino, e avevano sostituito ad esso, in forma di simulacro (a
celare e rimuovere il vuoto dei fondamenti e dei valori), la società
dei consumi.
Per quanto si possa
interpretare in modo eterodosso l'opera di Pasolini, questo è il
punto: era completamente disorganica al Pci perché il male italiano
lo ravvisava in quelle condizioni senza le quali i comunisti non si
sarebbero posti come possibilità alternativa per la guida del paese.
A poco vale in questo contesto l'immagine pasoliniana del partito
comunista come isola pulita in un mare orribilmente sporco.
Ma liquidare Pasolini in
quanto «nostalgico» e «reazionario», considerando pura
esercitazione" retorica la sua distinzione tra «progresso» e
«sviluppo» (questa l'idea di Asor Rosa: lo sviluppo
neocapitalistico italiano è stato necessario al progresso) significa
rimuovere il travaglio del partito comunista di fronte al dilemma
della «terza via».
Asor Rosa afferma che «in
ogni salto di civiltà — e la rivoluzione dei consumi lo è — ci
sono elementi di barbarie» e che il problema è semmai quello di
«allevare», «educare» questi elementi, e non di rifiutare quel
salto. Di questo passo il ruolo del Pci rischia di ridursi a una
gestione più democratica della società postmoderna e nulla più. Al
contrario Pasolini chiedeva al Pci di assumersi il ruolo di partito
di «conservazione», di resistenza alla «prima vera rivoluzione di
destra», quella del neocapitalismo. Con la sua metafora del Palazzo
— ha detto Pietro Ingrao a confonto con Asor Rosa — Pasolini ha
intuito la crisi della politica esplosa negli anni successivi con
l'incolmabile separazione tra un ceto politico che si autoriproduce
per vie esogene e manipola tutto ciò che è fuori e la vita
quotidiana degli individui. Questo in risposta ad Asor Rosa che aveva
parlato invece di un ceto intellettuale disperso in tanti palazzi e
della necessità di chiedersi piuttosto come ci si sta e come ci si
deve stare, invece che cullare il sogno di un intellettuale «fuori
dal Palazzo».
In due pagine che l'Unità
ha dedicato domenica 15 settembre al meeting della Fgci Alfonso M. di
Nola, storico delle religioni, comunista, si chiede se i giovani
omologati e disumanizzati di cui parlava Pasolini negli ultimi anni
fossero una realtà o non piuttosto una meccanica trasposizione
ideologica di un'esperienza strettamente personale:«Egli, testimone
del tempo, è stato trascinato dall'emozione, ha rinunziato
all'approfondimento delle concretezze storiche che erano nei giorni
delle nuove generazioni operaie e nella costruzione della
democrazia». Stessa obiezione muove di Nola a Pasolini a proposito
della distruzione delle culture «particolaristiche»: sembra quasi
che la sua lente, troppo adiacente a quelle realtà per eccessiva
passione, avesse cancellato ogni residuo di speranza, derivante dalla
capacità di avere uno sguardo più panoramico sul mondo. Quelle
realtà non avevano in Pasolini, determinazioni storiche ma si
configuravano piuttosto come il mito dell'«età del pane»,
sbocciato negli anni materni di Casarsa.
Edoardo Sanguineti,
intervenendo anch'egli sulle pagine dell'“Unità”, parla a questo
proposito di una «passione» che «si è subito rivolta, dai primi
testi, verso un mondo, verso una 'realtà', che fosse raffigurabile
come naturalmente estranea all'orizzonte borghese», dunque già
prima e già meglio che «preconsumistica, quale poi diventerà,
assolutamente pre-borghese e pre-industriale». Contro l'«idealismo»
pasoliniano Sanguineti invita alla rilettura dei primi passi del
Manifesto di Marx ed Engels, quelli dell'«elogio della
borghesia e della rivoluzione capitalistica», e sembra implicito,
nella sua argomentazione, che la rivoluzione neocapitalistica e
insieme l'attuale rivoluzione postindusriale si configurino come una
«necessità» storica nel possibile passaggio a una forma di società
socialista. Sanguineti salta a pie pari, con ciò, tutte le teorie
sulla fine della modernità come fine della storia, di cui è
partecipe anche Pasolini quando prefigura, in toni apocalittici,
l'«entropia borghese», l'universale pervasività della borghesia.
Gianni Borgna, dal canto
suo, difende o costruisce dalle pagine del quotidiano comunista
l'immagine di un Pasolini perfettamente inserito nelle coordinate del
suo tempo. E lo fa ricorrendo ai testi, che estrae dall'opera
pasoliniaia gli scritti organici al Pci: Pasolini contro la cultura
della povertà e a favore di quella comunista, Pasolini «indignato»
per il consumismo italiano ma non per il consumismo «in generale»,
Pasolini schierato al fianco dei moti studenteschi (paragonati alla
resistenza), oppure contro i moti studenteschi, ma solo contro quelli
italiani e francesi, che hanno ignorato la tradizione operaia che
avevano alle spalle.
È in questa direzione
che si è mosso nei giorni scorsi il meeting dei giovani comunisti,
entrati in forte polemica con Asor Rosa, il quale li ha accusati di
disputarsi le spoglie di Pasolini con Comunione e liberazione. In un
intervento di ieri su “La Repubblica” il loro segretario Pietro
Folena insiste con l'immagine di un Pasolini «moderno», il quale
oggi si sarebbe schierato contro un conformismo che «non è più la
trasgressione, ma una nuova sottile obbedienza a regole di
ineguaglianza, individualismo, forza, brutalità». Questa
distinzione tra il conformismo di ieri e di oggi appare un po'
pretestuosa perché forse le «regole» denunciate da Folena erano
anche dentro le trasgressioni degli anni '70 e d'altra parte il
«nuovo conformismo» non ignora certo la trasgressione. Pasolini ha
voluto dire che non esistono conformismi nuovi e vecchi, ma esiste il
conformismo, nel cui universo ordine e trasgressione, disobbedienza e
obbedienza risultano termini intercambiabili o dosabili a piacimento
e senza residui. Parlando dei giovani non conformisti Pasolini
lamentava la solitudine a cui erano destinati quei pochissimi ragazzi
costretti a crescere culturalmente e politicamente sempre contro
qualcosa, senza solide radici a cui allacciarsi: e sono per lo più,
scriveva, i giovani comunisti.
La dimensione storica e
anche politica che Pasolini sentì l'urgenza di abbracciare si doveva
necessariamente scontrare con un apriori mitico, com'è per ogni
scrittore da almeno due secoli. È la contraddizione di cui tanto si
parla a proposito di Pasolini, in lui certo più trasparente perché
aveva deciso di «buttare il suo corpo nella lotta». È la
contraddizione di cui parla la sua grande amica Laura Betti, e ogni
volta aggiunge che tuttavia sempre rientrava, la curva spezzata
sempre ritrovava il suo cerchio, un mondo a tutto tondo, caldo e
compatto, perfettamente interiorizzato che non trovava fuori.
“il manifesto”, 25
settembre 1985
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