1.4.17

I comici. Totò, Petrolini,Macario e gli animali pazzi degli anni Trenta (Giancarlo Mancini)

Se ancora oggi li si osserva sotto la lente dell’incompiutezza, gli anni 30 del cinema italiano sono invece il laboratorio in cui, in incognito, si aggirano i protagonisti delle fortune del dopoguerra. Il genere comico a esempio era stato nel trentennio precedente filiazione diretta del palcoscenico, qualche volta con mezzi più sontuosi rispetto a varietà e caffè-concerto. La necessità di un rinnovamento di moduli ed esperienze filtra con il trascorrere degli anni man mano che aumenta, in Blasetti, Zavattini, Bragaglia o Steno, la consapevolezza di dover cercare nel linguaggio cinematografico la possibilità di far ridere il pubblico. Di questo affascinante periodo di progetti e esperimenti ci racconta un bel libro di Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L'idea comica nel cinema italiano (1930-1944), ed. Kaplan.
In Italia «c’era solo la corsetta di Ridolini», tanto per dire alla Mattoli quanto esiguo fosse lo spazio di una strada cinematografica verso la risata. Se le possibilità economiche dei produttori avevano da tempo attirato i nostri migliori talenti comici dal varietà al set, pochi erano stati i tentativi di distaccarsi da quel fortunato modello spettacolare. Ecco allora il sovrabbondare di gag e di lazzi lasciare sguarnito il racconto filmico. L’interesse di scrittori, umoristi, patiti della maschera declinata verso l’assurdo delle avanguardie era già nei primi anni 30 assai forte, guidato dal culto di Ettore Pretolini. Attorno al quale il cinema si genuflette reverenziale con il Nerone (1930) di Blasetti e Cortile e Il medico per forza (1931) di Campogalliani. Restava insomma fuori dalla commedia l’osservazione della vita quotidiana, le difficoltà degli italiani, la sproporzione tra la realtà e la grancassa del regime che proprio a partire dalla metà degli anni 30, con l’avventura imperiale, alzava ancora di più il tiro. Va da sé che anche i film dei primi anni 30 fossero sostanzialmente appannaggio degli attori, tutti o quasi, sottolinea Faccioli, di derivazione regionale. I quali «dovendo capitalizzare al massimo il proprio lavoro senza peraltro aver molto tempo per prepararsi, con incoscienza e spontaneità trasferiranno in blocco questi saperi, aggiornandoli davvero poco, per adattarsi in fretta e furia a un medium a loro virtualmente ancora sconosciuto, mai dal primo istante congeniale». Ridere al cinema in Italia fu dunque anzitutto un lento e graduale processo di appropriazione del mezzo. E se gli anni 30 sono stati il tappeto lungo il quale questo tentativo si è manifestato, quasi sempre ricordando i film di Righelli, Malasomma, Mastrocinque, Borghesio, si parla di occasioni mancate, di battute a vuoto, di smarrimenti. Con i grandi esempi fomiti dalla triade Chaplin, Keaton e Lloyd a frastornare ancora di più la giovane critica e a depistare umori e progettualità dei nostri sempre estemporanei produttori.
D’altra parte a rendere avventurosi e cruciali questi anni è la presa di contatto con umoristi e scrittori satirici che si stavano dando da fere sul Bertoldo, Marc’Aurelio e Becco Giallo: Metz, Marchesi, Steno, Campanile, Fellini, Guareschi, Zavattini forniranno l’ossatura del cinema futuro, quello risorto fuori da Cinecittà a partire dal ’44. Tampinati dalla censura che li obbligava a slalom meticolosi, questi stessi, se con un braccio si addestravano ad adattare gag e giochi di parole al grande schermo, dall’altro proprio da questo traevano maggiore ispirazione, scherzando sui divi dell’epoca e i loro costumi disinvolti e sui divi d’oltreoceano, immaginati dalla scrivania di casa, come faceva Zavattini nelle Cronache di Hollywood.
Se il cinema comico in Italia nasce nel ’39, con Imputato alzatevi! (di Mattoli, con Macario) e Animali pazzi (di Bragaglia, con Totò), ciò è il frutto di una coscienza se non altro dei generi, così come si stavano codificando sulla spinta di Luigi Freddi, il duce della cinematografia. Sospinta dalla scelta autarchica e dal divieto di importare film Usa, dopo il 39 inizia finalmente a svilupparsi una produzione differenziata secondo i modelli hollywoodiani. Il problema, una volta eletti Macario e Totò a marionette ideali, non è più scegliere la storia e le gag, ma una scrittura filmica diretta verso la realtà. Aspettando la fine della dittatura.


“alias il manifesto”, 25 febbraio 2012

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